(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 13 febbraio 2014 col titolo “Il senso della politica per il tempo”)
Ci ho messo diversi mesi a capire la ragione più profonda del disagio che mi pervade trascorrendo lunghe giornate nelle aule parlamentari. È il rapporto che queste istituzioni creano con il tempo. Si corre in continuazione, ma poco si muove: la sommatoria di frenetiche corse individuali produce una mostruosa lentezza istituzionale. Sembra di essere dei criceti che corrono nella propria ruota: il movimento è fine a se stesso. Le persone corrono, le istituzioni restano ferme.
Il tempo viene considerato una risorsa illimitata, e non si nega a nessuno. Chiunque voglia prendere la parola può farlo, per dire qualunque bestialità. Meno male che il livello di autodisciplina dei parlamentari è complessivamente buono, se tutti approfittassero di questa situazione, potrebbe essere molto peggio: come se tutti i cittadini lasciassero aperti tutto il giorno i rubinetti di casa, pensando che l’acqua sia infinita, e non un bene prezioso da usare con parsimonia.
Al di fuori dall’aula tutto va veloce: si corre da una commissione all’altra (siedo in tre commissioni, che hanno orari o assurdi o sovrapposti), si risponde a centinaia di messaggi sui temi più disparati, si lotta per ritagliarsi lo spazio per studiare i provvedimenti di cui poi si discute. Poi si entra in aula, e tutto va a rilento. Interventi verbosi e inutili, interruzioni, qualche urlo, ore e ore per ratificare decisioni già prese, applausi, saluti agli ospiti in visita, altri applausi, microfoni che non funzionano, pause, richieste di numero legale, altre pause, altri interventi, richiami della presidenza al rispetto dei tempi, proteste, (“Lei non mi fa parlare”, “non l’ho vista”, “mi ha ignorato volutamente”, “non è vero”, e così “dialogando”).
Regolamenti alla mano, il tempo è l’unica vera concessione alle opposizioni. Che ne fanno un uso inversamente proporzionale all’efficacia concreta delle loro proposte. In pratica il tacito accordo, imposto da regolamenti vetusti, è: “parla quanto vuoi, poi tanto quando si vota decide la maggioranza”. Umiliante per le opposizioni, per le maggioranze, e soprattutto per il tempo infinito che richiede.
Intanto il lavoro si accumula. Visto che quasi sempre si tratta di decreti da convertire ci sono scadenze precise. Così i tempi si dilatano, le sedute continuano di notte, ci si arrabatta, e alla fine quando proprio il tempo non c’è più viene tirato il freno di emergenza: voto di fiducia, “tagliole”, contingentamento dei tempi, il tutto preceduto da riunioni dei capigruppo che obbligano a sospendere per ore le sedute perdendo altro tempo. Conseguenti proteste, altre perdite di tempo, e in qualche caso, come avvenuto recentemente alla Camera, risse, urla e insulti, e tutti a commentare e perdere altro tempo sui social media, foto in diretta, vietate, sì, no, altre urla. E poi sotto col prossimo provvedimento.
Il tutto raddoppiato dalla struttura bicamerale. Per cui molto spesso la camera che tratta per seconda un tema si ritrova a farlo senza più margini di manovra, con pochissimo tempo, di cui si abusa peraltro fino all’ultimo istante. Con conseguenti ulteriori polemiche, e ulteriori perdite di tempo.
Per risparmiare un po’ di tempo (oltre che per altri e meno nobili motivi), spesso il governo presenta decreti disomogenei. Ma se correttamente ne facesse due o tre invece di uno, i tempi raddoppierebbero o triplicherebbero, aggravando ulteriormente la situazione: fare le cose per bene porterebbe ad aggravare il già fortissimo ingorgo istituzionale e farebbe lavorare ancora peggio. Per numero di ore lavorate e di provvedimenti approvati, il Parlamento italiano è di gran lunga il primo in Europa. Per qualità del lavoro probabilmente l’ultimo. Proposte di iniziativa parlamentare non hanno praticamente alcuna speranza di essere esaminate, ma se ne continuano a presentare, intasando ulteriormente i lavori.
Stranamente nel discorso sulle riforme non si considera mai la riforma del rapporto col tempo. Senza la quale però qualsiasi altra riforma resterebbe tritata nei medesimi meccanismi infernali. Il motivo è semplice: è un problema culturale ben prima che politico: lavorare in emergenza, senza certezze, senza programmazione, in condizioni precarie è tipico di qualunque settore della società italiana, e trova nel Parlamento semplicemente la sua ultima rappresentazione istituzionalizzata. Ma un Paese che non dà valore al tempo assai difficilmente può avere un futuro.
Veramente una grande riflessione! Complimenti!
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