(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 29 settembre 2015 con il titolo “La Catalogna e il rapporto con noi”)
Le elezioni-plebiscito in Catalogna, che dovevano dare un chiaro segnale sulla volontà di indipendenza, hanno se possibile complicato ulteriormente il quadro. Gli indipendentisti hanno la maggioranza assoluta dei seggi, non quella dei voti. In ogni caso, l’opinione della popolazione, espressa per via elettorale anziché referendaria, è divisa a metà.
Ed è questo il problema di fondo, che non si sa bene come risolvere in una società democratica. Quando il consenso è davvero legittimo e può imporsi alla minoranza? Possono decisioni di questa portata essere prese dal 51% contro il 49%? D’altra parte, quanto “peso” serve a una minoranza per dover essere tutelata e quando questa tutela diventa un veto ingiustificato?
I catalani sono per metà favorevoli all’indipendenza, per metà contrari, anche se gran parte di questi ultimi vorrebbe una maggiore autonomia e forme inclusive e non esclusive di cittadinanza multipla: vorrebbero qualche sfumatura di grigio invece del bianco o nero che viene loro offerto.
Che succederà ora? Il segnale è stato forte e chiaro: che si tratti o meno di una maggioranza aritmetica dei catalani, la metà di loro è per staccarsi dalla Spagna. Madrid non potrà più permettersi un atteggiamento di chiusura rigida come quello tenuto finora, che ha solo compattato il fronte indipendentista. Assumendo che un costruttivo dialogo finalmente inizi, la questione ulteriore è chi negozierà sul fronte spagnolo. Le elezioni generali si terranno a dicembre, ed appare assai difficile che il governo conservatore di Rajoy possa essere riconfermato. Se anche lo fosse, sarebbe in coalizione con forze assai meno rigide sulla questione. Dunque se ne parlerà davvero da gennaio, e potrebbe iniziare un serio lavoro volto a modificare la costituzione, concedendo quelle innovazioni sul piano dell’assetto territoriale che, se fatte per tempo, avrebbero impedito l’escalation indipendentista. Insomma, non è affatto detto che la Catalogna diventerà indipendente davvero, e nemmeno che arrivi a una dichiarazione unilaterale in tal senso. Potrebbe aprirsi la stagione di una compiuta federalizzazione della Spagna e perfino di un assetto quasi confederale, con alcune entità semi-sovrane ma comunque associate al resto del Paese. Quel che è certo è che Madrid dovrà cambiare il suo atteggiamento ottuso se vorrà evitare che lo scontro si acuisca e che prima o poi la Catalogna sia “persa”, di diritto o di fatto.
I soliti provinciali delle nostre parti guardano alle ricadute del voto catalano su Alto Adige e dintorni. I separatisti, delusi dal referendum scozzese dell’anno scorso, si sentono ringalluzziti dal voto catalano, anche se a ben vedere gli esiti sono gli stessi: poco più o poco meno della metà delle persone in quei territori vorrebbe l’indipendenza. I sostenitori del derecho a decidir in salsa Bozner non sono in grado di offrire risposte su come andrebbe gestita una plausibile frattura analoga nella nostra società, qualora si arrivasse a situazioni simili. Le risposte non ci sono, ma proprio per questo bisognerebbe evitare di fingere di averle.
L’unico punto in comune con la Catalogna è un ordinamento costituzionale che non contempla un referendum indipendentista (nemmeno consultivo, come recentemente ricordato dalla Corte costituzionale) e una capitale sorda alle esigenze delle periferie. Tutto il resto è diverso. Dalle condizioni socio-economiche alla storia (anche se l’argomento storico dovrebbe entrare con cautela in questi dibattiti, essendo facilmente manipolabile), fino al contesto politico (visto che al momento le forze politiche separatiste in Alto Adige sono largamente minoritarie, per quanto in crescita). Ma soprattutto la diversità sta nel fatto che né in Catalogna né in Scozia convivono gruppi linguistici diversi come in Alto Adige. L’identità nazionale scozzese o catalana è forte, ma non definita in termini etnici (e nel primo caso nemmeno linguistici) bensì territoriali. Anche se in Alto Adige dovessero un giorno maturare le condizioni politiche per cui l’intero arco politico di lingua tedesca volesse l’indipendenza, occorrerebbe comunque una maggioranza rafforzata tale da includere anche il consenso della maggioranza della popolazione di lingua italiana. A meno di non accedere a un’interpretazione per cui solo il gruppo tedesco e ladino abbia il diritto di esprimersi perché gli italiani non fanno parte di questa terra, il che squalificherebbe qualsiasi pretesa di legittimazione agli occhi della comunità internazionale.
Insomma, il caso catalano solleva interessantissimi interrogativi, il cui rilievo va ben oltre i confini spagnoli. Ma che non lambisce, per il momento, le alpi.
G.mo Francesco, ho vissuto per 20 anni in Catalunya con la mia famiglia catalana perciò sono diventato catalano anch’io assumendo anche la lingua per rispetto alla nazione che mi ospitava. Ora abito in Alto Adige, forse il destino mi porta a vivere in terre dove regna l’inquietudine dell’autonomia con i suoi pregi ed i suoi difetti.
Se dovessimo analizzare seriamente e profondamente queste inquietudini, troveremo che in comune queste autonomie hanno sofferto l’imposizione di una migrazione (spagnola in Catalunya e Italiana in Suedtirol) al fine di appunto di distruggere qualsiasi ambizione di indipendenza. Strategia comune a Franco e Mussolini. Ma in Catalunya il popolo ha deciso a suo tempo di evitare lo scontro violento e imporsi con la cultura, ha accettato la migrazione e ha cercato in tutti i modi la convivenza, ma non ha mai abbandonato quell’idea di indipendenza che risale a oltre 300 anni fa.
Perché allora non accettare una Catalunya europea in armonia con la Spagna che è il vero pensiero dei catalani?
Grazie
Andres Pablo Pietkiewicz