(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 20 agosto 2016 con il titolo “La realtà delle regioni ordinarie”)
Il secondo pilastro della riforma costituzionale, accanto alla modifica del bicameralismo, riguarda i rapporti tra Stato e Regioni. L’intento dichiarato è di “rimuovere le incertezze, le sovrapposizioni e gli eccessi di conflittualità che si sono manifestati a seguito della riforma del 2001”. Di quella modifica costituzionale si propone ora una sostanziale ‘controriforma’, ridisegnando la distribuzione delle competenze legislative tra Stato e Regioni ordinarie (tutto questo non vale per le speciali, come vedremo).
Il nucleo della riforma consiste nell’abolizione delle competenze legislative concorrenti, in cui lo Stato definisce i principi e le Regioni le regole di dettaglio. Queste competenze, attualmente riguardanti molte ed importanti materie (alcune delle quali fortemente contestate, come l’energia o il coordinamento della finanza pubblica), sono ritenute dal legislatore la causa principale dei conflitti tra Stato e Regioni dopo la riforma del 2001 e vengono pertanto quasi completamente trasferite nella competenza esclusiva dello Stato. Le materie esclusive dello Stato vengono così quasi raddoppiate nel numero, arrivando a oltre 50, ed estese nella sostanza, includendo tematiche fondamentali come le disposizioni generali e comuni in tema di tutela della salute, ordinamento scolastico, tutela del lavoro e formazione professionale, governo del territorio, ed altre.
Riuscirà la riforma a ridurre i conflitti sull’attribuzione delle competenze? L’enorme aumento di tali conflitti dopo il 2001 si è concentrato nei primi anni, per poi stabilizzarsi una volta che la Corte costituzionale ha definito (dando quasi sempre ragione allo Stato) l’ambito delle diverse competenze. Inoltre, questi conflitti derivano per il 75% da ricorsi dello Stato contro leggi regionali, il che significa che è lo Stato a bloccare l’iniziativa regionale, non viceversa. E soprattutto molte competenze riguardano materie trasversali e di portata amplissima (ad es. l’ordinamento civile o il coordinamento della finanza pubblica), già usate pervasivamente dallo Stato. Il nuovo sistema espande la competenza esclusiva dello Stato ma introduce anche una lista di competenze regionali e mantiene la competenza regionale su tutte le materie residuali, cioè non attribuite allo Stato, che in linea teorica potrebbero essere significative e comunque richiedere una co-legislazione (ad es. industria, agricoltura, artigianato, ma anche paradossalmente la circolazione stradale…). La competenza concorrente rientrerebbe in ogni caso dalla finestra visto che in molte materie lo Stato può emanare solo “disposizioni generali e comuni” o “disposizioni di principio”: cambia la terminologia rispetto alle attuali “norme generali” e “principi fondamentali” ma non la sostanza. Insomma, a meno che le Regioni non rinuncino del tutto al proprio potere legislativo, i conflitti non spariranno, anzi.
Più efficace per riportare le competenze a Roma è la previsione per cui “su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale” (art. 117 c. 4). Vero che disposizioni analoghe esistono in molti ordinamenti federali, ma in questo caso la decisione è in capo al Governo e alla Camera, con un ruolo molto debole del Senato. Potenzialmente dunque lo Stato, se lo ritiene, può legiferare su tutto, per superare quello che da molti è ritenuto l’attuale potere di veto delle Regioni.
Si introducono poi alcune novità sulle funzioni amministrative, che restano ripartite come oggi in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, aggiungendosi però i nuovi criteri (non facilmente definibili in concreto) di semplificazione, trasparenza, efficienza e responsabilità degli amministratori (art. 118 c. 2). In tema di rapporti finanziari l’art. 119 costituzionalizza il concetto dei costi e fabbisogni standard, da prevedere con legge “ordinaria” quindi senza l’intervento rafforzato del Senato, e l’art. 120 estende il potere sostitutivo dello Stato anche alla rimozione degli amministratori locali in caso di grave dissesto finanziario (come già oggi previsto per legge).
Insomma, la riforma senza dubbio accentra molto i poteri in capo allo Stato. Un contrappeso c’è, ma non è il nuovo Senato – che ha un peso marginale proprio nella difesa delle prerogative regionali – bensì la riformata previsione dell’art. 116 c. 3 sulla possibilità di attribuire alle Regioni competenze in importanti ambiti (giudici di pace, politiche sociali, istruzione, ordinamento scolastico, università, politiche attive del lavoro, formazione professionale, commercio estero, beni culturali, ambiente e ecosistema, ordinamento sportivo, turismo, governo del territorio) a condizione che le Regioni siano in equilibrio di bilancio. Il messaggio sembra dunque essere: “meno autonomia per tutti, più per chi la merita”.
Molto dipenderà quindi dalla capacità delle Regioni di negoziare (e gestire) forme più ampie di autonomia. Quelle che non lo sapranno o vorranno fare diventeranno poco più che mega-province, con funzioni di mero coordinamento amministrativo. Per le altre potrebbero aprirsi spazi nuovi e interessanti.
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