Una lezione svizzera

(pubblicato sul quotidiano Alto Adige dell’11 dicembre 2018)

Esiste un antidoto al populismo? Non in assoluto, perché in democrazia non può mai escludersi un consenso maggioritario anche contro la stessa democrazia. Esistono però due strumenti di fondamentale importanza, che troppo spesso vengono trascurati: i contrappesi istituzionali e il dibattito informato.

I primi si risolvono in un sistema di regole che impedisce la concentrazione del potere in capo ad un unico soggetto, sia esso il sovrano, il popolo, il parlamento, i giudici, il governo. Non si tratta solo di separare i poteri, in senso orizzontale o verticale, ma anche di coordinarli, affinché ogni potere operi come un controllo nei confronti degli altri. Perché un potere possa esercitarsi in modo sano, è tuttavia indispensabile che le sue scelte siano effettuate sulla base di dati e conoscenze, non delle emozioni. Le sentenze devono essere motivate, le leggi no ma esiste un supporto conoscitivo importantissimo fornito dagli uffici parlamentari che consente a chi lo voglia (legislatori, giornalisti, semplici cittadini) di farsi un’idea sulla base di fatti e dati reali, non di tweet.

Recentemente una lezione di come questi fattori possano funzionare è venuta dalla Svizzera. Com’è noto, il sistema democratico svizzero è caratterizzato da una massiccia dose di democrazia diretta, che rappresenta un potere assai significativo e un importante contrappeso rispetto ad altri poteri. Il 25 novembre la popolazione è stata chiamata a votare su una delicatissima iniziativa popolare – uno strumento che consente di modificare la costituzione federale se richiesto da almeno 100.000 elettori e se la proposta ottiene il voto favorevole della maggioranza dei cittadini e della maggioranza dei cantoni.

L’iniziativa popolare è assai frequente in Svizzera, e spesso riguarda temi importanti. Qualche anno fa fece scalpore l’approvazione di quella riguardante il divieto di edificazione di minareti. L’iniziativa in questione era denominata “prima il diritto svizzero”. Il tono trumpiano “Svizzera first” era reso assai più sottile dal riferimento al diritto. L’obiettivo dell’iniziativa, proposta dal partito popolare svizzero (SVP, populista di destra) era infatti di cancellare o rinegoziare i trattati internazionali non in linea con l’ordinamento nazionale, dando ai cittadini l’ultima parola anche sui trattati, restringendo in modo corrispondente i poteri del governo di negoziare i trattati, del parlamento di ratificarli, e delle corti di affermarne il primato rispetto alla legislazione nazionale. L’iniziativa era stata lanciata quattro anni fa in risposta ad alcune sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che avevano condannato la Svizzera per avere espulso illegalmente alcuni criminali stranieri, e contro lo stesso parlamento che, per non violare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, non ha mai dato attuazione a una iniziativa approvata nel 2010 in tema di espulsione automatica degli stranieri condannati per una serie di reati.

Temi come si vede delicati e facile preda degli argomenti populisti: cosa c’è di meglio che affermare il primato del “mio” diritto su quello altrui cacciando i delinquenti stranieri? Eppure l’iniziativa è stata rigettata in maniera decisa dal voto popolare: il 66,2 dei votanti ha respito la proposta, che non ha ottenuto la maggioranza in nessuno dei 26 cantoni. Com’è stato possibile? Soprattutto grazie al dibattito informato. Del tema si è discusso a vari livelli per quattro anni. Gli argomenti a favore e contro sono stati soppesati. I principali avversari dell’iniziativa sono stati gli imprenditori, che hanno sostenuto come una situazione di incertezza giuridica in relazione al rispetto dei trattati avrebbe danneggiato pesantemente la reputazione della Svizzera come Paese aperto e affidabile per la comunità internazionale, con inevitabili ripercussioni economiche.

Non è questione di buoni contro cattivi (o di buonisti contro cattivisti), di élite contro il popolo, di sovranità contro i mercati, e il solito armamentario retorico utilizzato (anche in Svizzera) su questi temi. Nessuno strumento funziona sempre. E per i sostenitori dell’iniziativa in questo caso non ha funzionato. Il punto è la presenza di istituti che consentano al potere di limitare il potere, e ai decisori (siano essi i legislatori o gli elettori) di approfondire le questioni e decidere “di testa”. Il che non significa di per sé decisioni buone. Ma significa almeno decisioni informate. È già tantissimo.

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