(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 9 febbraio 2021 con il titolo “L’occasione del governo ‘di tutti’“)
La scelta della Lega di appoggiare il governo Draghi può apparire sorprendente. Il nuovo capo del governo rappresenta in effetti ciò che il partito di Salvini ha sempre avversato: le banche, l’Europa, la trojka, le élites, gli intellettuali, la casta, le oligarchie. Senza contare la prospettiva di governare insieme a forze politiche lontane, in qualche caso lontanissime dalle posizioni della Lega. C’è sicuramente una buona dose di tatticismo politico nella decisione, ma questo è normale per tutti quando il panorama politico si riassesta.
Non interessa qui valutare – nel caso l’operazione andasse in porto – se si tratterà di una scelta politica vantaggiosa o meno per la Lega (e per gli altri partiti che sosterranno l’operazione). Ciò che interessa, e che è molto più importante, è che la mossa può avere effetti positivi di tipo sistemico, a beneficio della cultura politica complessiva e non dell’uno o dell’altro partito.
La politica richiede di avere costantemente a che fare con idee che non si condividono. E la principale malattia della politica negli ultimi decenni, non solo in Italia, è stato l’abbandono di questo assunto. Alla mediazione, sfibrante e indispensabile, si sono sostituiti negli anni il rifiuto e la stigmatizzazione delle idee degli altri, l’attacco personale, la settarizzazione. All’azione si è preferito lo slogan, al negoziato la visibilità. E le ricette politiche sono state rimpiazzate da formule facili e fuorvianti, come quella per cui la sera delle elezioni si deve sapere chi governa. Poco importa se governerà poco e male. Ma è davvero così? Davvero non conviene riflettere, negoziare, prendere il tempo necessario per predisporre accordi di governo seri e duraturi, come ancora succede nella gran parte dei sistemi parlamentari dell’Europa continentale, nonostante la recente diffusione della banalizzazione populista?
Il governo Draghi è da questo punto di vista un’opportunità di metodo. Nel merito le cose da fare sono chiare e tutti concordano, almeno a parole, e da inventare c’è molto poco. C’è invece la grande occasione di inventare un metodo, quello del governo di tutti. Anzi di riscoprirlo. I sistemi politici più stabili sono sempre stati quelli in cui tutti (o quasi) hanno condiviso se non le responsabilità di governo, quanto meno i fondamenti dell’azione politica. Non illuda il modello britannico: gli schieramenti politici, nella diversità delle loro proposte, sono fungibili, pur essendosi recentemente anch’essi contagiati con atteggiamenti più conflittuali. Le democrazie dell’Europa centrale e settentrionale sono tradizionalmente consociative, e il termine non ha l’accezione negativa che ha assunto nel linguaggio politico italiano. Dalla Germania in su, per formare i governi possono volerci mesi, e la cosa non ha affatto danneggiato il funzionamento del sistema, anzi. E l’unico Paese dell’Europa continentale che non ha mai conosciuto né monarchia né dittature, la Svizzera, si regge dal 1848 su una formula istituzionalizzata in cui il governo non è altro che un direttorio del Parlamento, in cui collaborano tutti i principali partiti. Un modello simile a quanto vigeva nei Länder austriaci, progressivamente abbandonato dagli anni ’90, in parallelo con la fine della democrazia della concordanza anche a livello federale.
Autorevoli commentatori italiani hanno subito messo in guardia dal rischio che il governo di tutti finisca per essere il governo di nessuno, ricordando l’esempio dell’esecutivo Monti. Ma è un rischio che dipende dai comportamenti, non dalla formula.
Specie in un sistema politico frammentato, conflittuale e immaturo come quello italiano, un governo di (quasi) tutti potrebbe fare bene al livello del confronto. Non si tratta di appiattire le differenze, ma di imparare a mediare, anche rispetto a idee che si ritengono esecrabili, costringendo tutte le forze politiche a una maggiore ragionevolezza. La cosa risulta più facile ora che il programma è sostanzialmente imposto dalla lotta alla pandemia e alle sue devastanti conseguenze economiche, ed è garantito da una figura super partes come il Presidente del Consiglio incaricato. E se l’esperimento durasse per un po’, almeno fino al termine della legislatura, forse qualcosa potrebbe cambiare nella cultura politica del Paese. L’unico dubbio è che questa opportunità arrivi quando è ormai troppo tardi per rianimare un sistema politico vittima dei suoi stessi slogan.