La guerra delle parole

(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 2 aprile 2021)

“Siamo in guerra e servono norme di guerra”. Così il capo del Dipartimento della Protezione civile, Fabrizio Curcio, ha espresso la delicatezza del momento e la necessità di accelerare il piano vaccinale. Concetti sacrosanti espressi con parole molto pericolose.

Pericolose in primo luogo perché le “norme di guerra” non esistono. La guerra è la negazione del diritto. Che prova a disciplinare alcuni aspetti del momento bellico, come con il purtroppo sempre disatteso diritto internazionale umanitario e con le norme penali per i militari (in Italia il codice penale militare di guerra), ma ci riesce fino ad un certo punto. Perché è un fenomeno razionale, che si ferma di fronte all’irrazionalità della forza che prevale in guerra. La forza del diritto è l’opposto del diritto della forza. Per questo il diritto è lo strumento di pace per eccellenza: il diritto sono le catene di Ulisse, lo strumento con cui si lega all’albero della nave per non cadere nella trappola delle sirene. È ciò che di meglio l’uomo ha a disposizione nei momenti di lucidità per prevenire errori nei momenti di panico. Come ricordato già da Cicerone, invece, quando si usano le armi tacciono le leggi (silent enim leges inter arma). Invocare “norme da guerra” significa evocare un non-diritto, un arbitrio in cui è lecito tutto ciò che è funzionale alla ragion di stato, all’obiettivo del momento. In questo caso il fondamentale contrasto alla pandemia.

È evidente che una situazione di emergenza richieda norme particolari e straordinarie, adatte al momento. Ma è pericoloso quando non vi siano regole che sovrintendano alla produzione di queste regole. Chi stabilisce cosa sia necessario per contrastare l’emergenza? Il governo? Il Dipartimento per la Protezione civile? Il Commissario per l’emergenza Covid? E come lo stabilisce? Con decreti? Con la forza normativa del fatto, secondo la nota espressione di Georg Jellinek? Basta un decreto del Presidente del Consiglio per superare il riparto di competenze tra Stato e Regioni garantito dalla costituzione? Evidentemente sì, come in qualche modo ci ha ricordato la Corte costituzionale. Intendiamoci: può essere la soluzione migliore. Ma non è mai “giusta” se non adottata nell’ambito di un quadro predeterminato dal diritto. Semplificando, è come cambiare le regole del gioco a partita in corso perché succede qualcosa che il regolamento non aveva previsto.

La pericolosità delle parole travalica il merito delle proposte che tali proposte esprimono. E per questo è ancora più grave. Un paio di mesi fa, proponendo di rendere obbligatoria per tutti la vaccinazione (posizione condivisibile, e giuridicamente legittima, considerando che in alcuni casi tale obbligo è già previsto per alcune vaccinazioni), il noto virologo Burioni ha twittato: “il Covid se ne frega della costituzione”. Il Covid sì, e infatti è un nemico da combattere. Ma se ce ne freghiamo noi siamo fregati. Perché lo stato di diritto è il vaccino contro virus anche peggiori del Covid, se non altro perché molto più duraturi.

Le parole non sono solo importanti. A volte diventano norme. E possono fare molti guasti, anche e forse ancor più quando dette in buona fede, perché determinano il contesto culturale in cui le norme operano. “Chi parla male pensa male e vive male”, ricorda Nanni Moretti in una storica scena di Palombella rossa. Ma a volte, in base alla responsabilità che ricopre, può far vivere male anche gli altri.

In quest’anno abbondante di difficile gestione di una situazione grave e assai complessa sono emersi alcuni elementi di grande importanza strutturale. Ad esempio che la costituzione (e gli statuti di autonomia) sono carenti in tema di disciplina delle emergenze. Che affidare tutto a leggi ordinarie (lo stato di emergenza è dichiarato in base al codice della protezione civile), attuate da decreti legge (disponibili da una maggioranza occasionale) e poi da atti amministrativi come i DPCM comporta che in Italia il controllo della Corte costituzionale sull’intero processo sia stato finora quasi inesistente, a differenza di quanto avvenuto nella maggior parte degli altri ordinamenti europei e non solo. Che regole di portata costituzionale possono essere travolte da atti amministrativi del governo – il che, sia ribadito ancora una volta, può essere giustissimo nel merito, ma è pericoloso se non ci sono regole che prevedono come debba avvenire. Che lo stato di emergenza è stato proclamato assai più frequentemente in ordinamenti unitari che in sistemi federali, senza che questo abbia inficiato una regia unitaria ovunque: il che sembra dimostrare che dividere le responsabilità non impedisce di coordinarsi, ma anzi aiuta a farlo.

La speranza è che ci si renda conto che si tratta di questioni fondamentali. E che si smetta di ritenere le riforme costituzionali e statutarie qualcosa per cui non vi siano mai le condizioni politiche, di istituire processi per elaborarle senza poi prenderli sul serio, e di considerare il contesto normativo come qualcosa di secondario o addirittura un fastidioso ostacolo. Perché l’alternativa è il diritto di guerra. Magari stavolta ci va bene. Ma non sempre i generali sono illuminati.

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