Il virus in contanti

(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 26 maggio 2020 con il titolo “Il virus e il denaro in contanti”) Con l’attenuarsi della morsa emergenziale seguita allo scoppio della pandemia, si affievoliscono anche i richiami ai mutamenti che il virus avrebbe … Continue reading

Il virus è centralista?

(pubblicato sulla Rivista Il Mulino (https://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:5047) il 26 febbraio 2020) «Dobbiamo evitare che alcuni governatori al di fuori delle aree di contagio possano adottare iniziative autonome. Nessuno deve andare per la sua strada altrimenti provocheremmo confusione a livello nazionale». Parole … Continue reading

The Erosion of Italian Regionalism

(published on 31 October 2019 on https://verfassungsblog.de/the-erosion-of-italian-regionalism/)

Elections in the small, peaceful, politically stable region of Umbria in central Italy normally go rather unnoticed. Since its establishment in 1970, the region, which now counts some 880.000 inhabitants, has always had a clear leftist majority. So far, it has been governed uninterruptedly first by the communist party and, since the 1990s, by its successors. Together with Tuscany and Emilia-Romagna, Umbria has been one of the historical strongholds of the Italian left, a model in terms of good administration, social cohesion and quality of life. When it was excluded from the national government, the left used the success story in Umbria and other regions as a showcase of its political ability and reliability.

The attention given to the regional elections in Umbria didn’t change when the direct election of regional presidents was introduced in 1995 (and constitutionalized in 1999), making Italy the only European country with a presidential system at regional level. For the past two decades, the only electoral thrill in the region  was the amount of votes and the broader or smaller margin in favour of the presidential candidate from the leftist coalition.

All of a sudden at the end of this summer, the usually low-key election of this fortunate region with a rather unspectacular political system brought Umbria into the spotlight of national politics. In Rome, the coalition between Matteo Salvini’s right wing Lega and the populist Five Stars Movement had collapsed, due to the former’s desire to capitalize its growing popular support especially on an anti-immigration agenda. To avoid snap elections that would most likely have made the Lega the first party in Parliament, a new political coalition was formed, under the same Prime Minister Giuseppe Conte. Now the junior partner of the Five Stars Movement is the moderate leftist Partito Democratico, from which its former leader and former Prime Minister Matteo Renzi split to form his own party, Italia Viva, – a move that allows Mr Renzi to support the government but to control its life: should he leave the coalition, it would no longer have a majority in Parliament. Continue reading

Editorial – ’70 Years of the German Basic Law’ Symposium

(published on the IACL Blog (https://blog-iacl-aidc.org/70-years-of-the-german-basic-law/2019/9/24/editorial-70-years-of-the-german-basic-law-symposium) on 24 September 2019) What is being celebrated and why? On 23 May 2019 the German Basic Law turned 70. It entered into force on that day in 1949, after having been drafted for … Continue reading

Le nebbie di Dover e la chiarezza costituzionale

(pubblicato sulla Rivista Il Mulino (https://rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:4846?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=%3A%3A+Rivista+il+Mulino+%7C+edizione+online+%3A%3A+%5B6953%5D#.XWz0HcfC4ow.twitter) il 2 settembre 2019) La scorsa settimana circolava un tweet che andava al punto. Diceva pressappoco così: l’Italia ha trovato una nuova maggioranza parlamentare, il Regno Unito ha perso la sua monarchia parlamentare. Il … Continue reading

Der Kulturabend: Minderheitenschutz in Italien (Rai Südtirol, 02.07.2019)

Der Kulturabend: 100 Jahre nach dem Ersten Weltkrieg – keine Alternative zur Brennergrenze? – 02-07-2019
Vollständige Sendung hier: http://www.raibz.rai.it/feed.php?id=62

Interview im Rahmen der Tagung “Die Pariser Friedensverträge 1919/20 und ihre Folgen“, Meran, 16.-18. Mai 2019, Akademie Deutsch-Italienischer Studien Meran / Accademia di Studi Italo-Tedeschi di Merano

Grande dibattito. Non solo maquillage

(pubblicato sulla Rivista Il Mulino (https://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:4715) l’8 maggio 2019)

Da molti mesi continua in Francia la protesta dei gilet gialli. Una protesta senza un obiettivo specifico ma espressione di un malcontento generalizzato, manifestato con modalità talvolta violente. Una spia che si è accesa nella società francese e di cui non è facile capire le cause. Così il Presidente Macron ha lanciato l’idea di un grande processo di ascolto della società, attraverso il più imponente esperimento di democrazia partecipativa della storia, il cd. grand débat national (https://granddebat.fr/). Dopo tre mesi di consultazioni e incontri pubblici, questo processo si è concluso, almeno nella parte consultiva. Ed è ora di tirare le prime somme.

I media internazionali hanno dedicato poca attenzione all’iniziativa. Quelli italiani praticamente nessuna. Probabilmente perché i temi dibattuti erano interni alla società e alla politica francese, poco eccitanti (dalla pressione fiscale alle periferie) e dunque poco vendibili sotto il profilo della comunicazione. L’attenzione è stata maggiore in Francia, ma i commenti sono stati prevalentemente critici, se non sarcastici. In molti hanno visto il grand débat come un’operazione simpatia di Macron in vista delle prossime elezioni europee. Altri hanno ironizzato sulla pomposità di un’iniziativa che è servita solo a far emergere problemi già noti. E non poteva mancare chi, con straordinaria originalità, ha segnalato come il grand débat abbia rappresentato l’ennesimo spreco di denaro pubblico. Queste posizioni sono emerse anche nel dibattito parlamentare sul tema, svoltosi prima di Pasqua prima all’Assemblea nazionale (http://www2.assemblee-nationale.fr/15/evenements/2019/le-grand-debat-national-a-l-assemblee-nationale) e poi al Senato (https://www.publicsenat.fr/emission/le-grand-debat-national).

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Brexit, le costituzioni e la tigre della sovranità popolare

(pubblicato sulla Rivista Il Mulino (https://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:4669) il 28 marzo 2019)

Il termine tedesco Schadenfreude indica la sensazione di piacere che si può provare quando a qualcuno vanno male le cose. Rallegrarsi delle disgrazie altrui, tuttavia, non solo è un sentimento negativo, ma può essere controproducente, giacché in un mondo interconnesso le sciagure altrui finiscono rapidamente per essere anche nostre. Di certo può essere un divertente e sottilmente perfido esercizio pensare a cosa avrebbe detto il mondo intero se il cortocircuito istituzionale sulla Brexit che sta paralizzando da tre anni il Regno Unito si fosse realizzato in Italia… Finita però la soddisfazione per lo scampato pericolo, e non potendo prevedere gli esiti di un processo nel quale la realtà supera quotidianamente la fantasia, possono comunque avanzarsi un paio di riflessioni di sistema su questioni che riguardano non solo il Regno Unito, ma tutta Europa e forse tutto il mondo. Questioni sulle quali c’è poco da ridere, come sulle disgrazie altrui.

La prima è che la costituzione più antica e solida del mondo, l’unica talmente resistente da non avere avuto nemmeno bisogno di essere messa interamente nero su bianco in un unico documento, è rapidamente diventata troppo vecchia per stare al passo con la storia. I segnali ci sono già da almeno un paio di decenni (che comunque in termini di storia costituzionale britannica sono un batter di ciglia), e i vari tentativi di manutenzione che si sono susseguiti hanno solo mascherato e leggermente ritardato il declino. Come talvolta capita alle persone anziane, che quasi all’improvviso passano da una buona forma alla condizione di moribondi, la costituzione britannica si è scoperta non più in grado di reggere le sfide della complessità moderna. Il meccanismo basato sull’onnipotenza del Parlamento o meglio della sua maggioranza pro tempore è andato in crisi di fronte ai paradossi delle decisioni a maggioranza. Non tutto può essere disponibile per le maggioranze parlamentari e dunque per i governi, e secoli di costituzionalismo, in buona parte nato proprio in Gran Bretagna, hanno insegnato che non basta confidare sulla responsabilità delle maggioranze, ma occorrono degli argini al loro potere. Problema britannico si dirà? Niente affatto.

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Chi ha paura dell’asimmetria?

(pubblicato sulla Rivista Il Mulino https://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:4633?fbclid=IwAR2XhzUPVynn06rdesv-N7NwA5_Ax8y1DGMdEfvnk2d6gRvohdRwNZwTWhE il 26 febbraio 2019)

È bastato un ulteriore, anche se non definitivo, passo in avanti verso la chiusura delle intese con Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna per la concessione a tali regioni di ulteriori competenze, per scatenare una nuova ondata di indignazione, paura, reazioni scomposte e provocatorie. Si è coniato uno slogan come quello della “secessione dei ricchi”, costituzionalmente non irreprensibile. Si sono annunciate iniziative teatrali e giuridicamente fantasiose, come quella del sindaco di Napoli che intende proporre un referendum (e ti pareva) per l’autonomia della città.

Ma cosa c’è dietro il sacro terrore dell’autonomia che anima così tanta parte della classe dirigente del Paese? Fino al punto da indurre molti difensori della supposta “Costituzione più bella del mondo” a protestare in modo veemente contro l’attuazione di una disposizione prevista, all’articolo 116 comma 3, proprio in questa Costituzione?

Dietro c’è qualcosa di molto semplice e altrettanto preoccupante: l’assoluta mancanza di una cultura dell’autonomia e di qualsiasi reale comprensione di ciò che l’autonomia significhi e comporti. Un problema che affligge non solo le burocrazie e la classe politica nazionale, ma anche quelle regionali – ed è semmai qui che sta il nodo potenzialmente problematico.

La stessa ricorrente e abusata espressione “autonomia differenziata” utilizzata in relazione a questo processo di devoluzione asimmetrica è un pleonasmo. Autonomia non può infatti che significare differenziazione, o almeno possibilità di differenziazione, dunque di approvare regole diverse da parte dei diversi territori. È evidente, fin dall’etimologia, che in presenza delle medesime regole non possa parlarsi di autonomia.

In Italia il terrore della disomogeneità ha ispirato la cultura giuridica e politica fin dalla legge sull’unificazione amministrativa del 1865. Da allora le enormi diversità del Paese non solo non sono state adeguatamente sfruttate come forme di ricchezza, ma neppure sono state ridotte. Anzi. Quanta uguaglianza è stata ottenuta con l’ossessione delle regole uguali per tutti? I “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” sono davvero “garantiti su tutto il territorio nazionale”, come previsto dalla Costituzione (art. 117 c. 2)? Tali livelli, peraltro stabiliti solo in ambito sanitario, hanno fatto sì che i servizi sanitari funzionino allo stesso modo in tutta Italia? E le scuole? E i servizi pubblici?

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Il voto del Parlamento europeo sull’Ungheria. Tanto fumo, poco arrosto e troppi deficit strutturali.

(pubblicato sulla Rivista Il Mulino (https://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:4482) il 24 settembre 2018)

Il 12 settembre il Parlamento europeo ha approvato la risoluzione che attiva il procedimento nei confronti dell’Ungheria per accertare la violazione sistematica dei valori fondativi dell’Unione europea e la conseguente persistente minaccia allo Stato di diritto.

Il voto è stato definito “storico” su tutti i principali media europei, e certamente lo è in quanto è il primo che il Parlamento europeo esprime ai sensi dell’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea. Lo è anche per le sue indubbie conseguenze politiche, a partire dalla spaccatura che ha provocato all’interno del Partito popolare europeo (Ppe), cui appartiene anche Fidesz, il partito del Primo ministro ungherese Orbán. Com’è noto, la maggioranza (115) dei 219 parlamentari del Ppe ha votato a favore della risoluzione e dunque contro Fidesz, consentendo il raggiungimento della maggioranza dei due terzi dei voti necessari per l’approvazione (i favorevoli sono stati 448). Tra i voti popolari a favore quelli della Övp del presidente di turno austriaco del Consiglio europeo Kurz, e quello del capogruppo Manfred Weber, possibile Spitzenkandidat dei popolari alle imminenti elezioni europee, che sembra così scegliere la “linea Merkel” anziché la “linea Orbán”. Tra i 57 contrari, i voti degli eurodeputati di Forza Italia, che in pieno spirito europeista hanno adottato una decisione tutta in prospettiva nazionale, per non acuire le distanze dalla Lega, gran sostenitrice di Orbán.

Paradossalmente, però, un voto che vuole significare una reazione d’orgoglio del Parlamento europeo contro l’erosione sovranista del ruolo dell’Unione in corso da qualche anno, rischia di trasformarsi in una prova di debolezza.

Innanzitutto le modalità di espressione del voto, e in particolare il computo delle astensioni (28 nel campo del Ppe), sono state oggetto di contestazione e potrebbero essere impugnate davanti alla Corte di Giustizia. Un fantastico assist alle torie complottiste non a caso sostenute da Orbán nel suo discorso al Parlamento europeo subito prima del voto.

In secondo luogo, la procedura è stata attivata con molto ritardo. Il percorso di creazione di una “democrazia illiberale” (parole di Orbán) è in atto in Ungheria dal 2010, quando Fidesz e il suo leader indiscusso hanno assunto il potere, modificando immediatamente la costituzione (2011) e dedicandosi successivamente allo smantellamento dello stato di diritto. Queste violazioni sono state accertate già da tempo da organismi quali la Commissione di Venezia, e il Parlamento arriva già tardi. Figurarsi se e quando si dovesse esprimere il Consiglio, che è l’organo che ha l’ultima parola in merito.

Terzo, il voto si presta alla facile accusa di esprimere la politica dei doppi standard già da tempo criticata nell’Europa centro-orientale. Perché l’Ungheria sì e altri stati che seguono il medesimo corso come la Polonia invece no, o almeno non ancora? È forse una questione di dimensioni e di peso politico, anche all’interno delle istituzioni europee? L’utilizzo strumentale di questo argomento può facilmente aumentare il vittimismo che in molti Paesi (Italia compresa) si sta diffondendo nei confronti dell’Unione europea, fomentato con piacere da chi il progetto europeo intende sabotare.

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