La riforma costituzionale illustrata – 10 Dal diritto alla politica

Costituzione(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 10 settembre 2016 con il titolo “Costituzione. Si passa dal diritto alla politica.”)

Giunti alla fine del “decalogo” sulla riforma costituzionale, si impongono alcune considerazioni complessive. Guardando al funzionamento delle nuove regole, si può dire che nel complesso esse siano riconducibili a quattro grandi categorie.

La prima comprende la costituzionalizzazione di regole che si sono sedimentate nella prassi, o sono il frutto della giurisprudenza costituzionale, o di proposte dottrinarie, o che infine sono condivise in modo più o meno trasversale nel panorama politico. Si pensi al superamento del bicameralismo perfetto, alla nuova disciplina dei decreti legge, al procedimento a data certa, all’abolizione del CNEL, al rapporto di fiducia, ai diritti delle opposizioni, alla prescrizione della maggioranza assoluta della Camera per deliberare lo stato di guerra, alla differenziazione delle competenze legata alla virtuosità delle Regioni.

La seconda categoria comprende innovazioni frutto di buone intenzioni ma non sempre riuscite sul piano tecnico. Ciò soprattutto perché la volontà di limitare l’intervento a due aspetti principali (bicameralismo e rapporti Stato-Regioni) ha impedito un intervento strutturato, e ha talvolta appesantito il drafting (come nel caso dei procedimenti legislativi, passati da uno a quattro). Molte di queste regole sono state poi il frutto di difficili compromessi politici, come nel caso della legislazione popolare e del referendum, o della elezione (indiretta ma non troppo, art. 57 c. 5) dei senatori.

Una terza categoria di norme va ascritta alla debolezza della politica e alla sua principale conseguenza, il populismo. Si pensi, per il primo caso, alla previsione del controllo preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali o alla cosiddetta abolizione delle Province, e per il secondo alla previsione del dovere dei parlamentari di partecipare alle sedute dell’assemblea e ai lavori delle commissioni (art. 64 c. 6): un obbligo implicito come per ogni altro lavoro, e oltretutto inutile perché non sanzionabile.

Vi sono infine le regole frutto di diagnosi sbagliate rispetto alla natura del problema da risolvere. Un esempio è la competenza concorrente rispetto alla conflittualità tra Stato e Regioni e più in generale la mancanza di una visione chiara sul rapporto tra centro e periferia in un Paese complesso come l’Italia, che porta con la stessa leggerezza prima ad infatuarsi del “federalismo”, poi a ritenere le Regioni la causa di ogni inefficienza, pensando di poter governare tutto da Roma. Altro esempio è il mito della navetta parlamentare: l’inefficienza del sistema sarebbe prodotta dal fatto che le leggi vanno avanti e indietro tra le due Camere, ma i dati dicono che la gran parte delle leggi sono esaminate in pratica da una sola Camera e approvate dall’altra senza modifiche: le leggi che hanno almeno tre letture sono poche (meno di un terzo) e generalmente le più delicate, e forse su queste non è sbagliato che vi sia una riflessione maggiore.

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La riforma costituzionale illustrata – 8 Le Regioni speciali

italy_map_with_regions__name_by_tehmaster001-d61troa(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 27 agosto 2016 con il titolo “La realtà delle regioni speciali”)

Per le Regioni ordinarie la riforma introduce una complessiva forte centralizzazione, pur consentendo un maggiore potenziale di differenziazione tra le diverse Regioni. Per quelle speciali, invece, l’autonomia è garantita e ulteriormente rafforzata, aumentandosi così di molto la distanza (già da tanti criticata) tra le Regioni ordinarie e quelle speciali.

Il comma 13 dell’art. 39 della legge costituzionale (dunque una disposizione transitoria) stabilisce che “le disposizioni di cui al capo IV della presente legge costituzionale (dunque i nuovi articoli 114-126 della Costituzione) non si applicano alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano fino alla revisione dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome”. La formulazione è contorta e frutto di lunga mediazione parlamentare. Essa significa in sostanza che le nuove regole (che indubbiamente ridimensionano i poteri delle Regioni ordinarie) non si applicano alle Regioni speciali. Né si applicheranno mai, perché con la prevista “revisione dei rispettivi statuti” saranno i nuovi statuti a definire in dettaglio le competenze delle Regioni autonome. Il contenuto di tale revisione è affidato alla negoziazione tra la singola Regione speciale e lo Stato. Ciò che la disposizione non spiega è come tale negoziazione della avvenire. Per lo Stato pare evidente per analogia che il soggetto negoziatore sarà il Governo: il Parlamento potrà solo accettare o bocciare l’intesa raggiunta. Per le Regioni non è stabilito chi debba negoziare. Ma soprattutto non è specificata la portata giuridica della prevista intesa: nel nostro ordinamento le intese sono atti concordati, per cui il veto di una parte porta alla mancata approvazione. Ciò significherebbe che (come per le disposizioni finanziarie di molti statuti speciali) senza l’intesa non si modifica nulla. Per contro, gli statuti speciali sono leggi costituzionali, sulle quali l’ultima parola, al termine di un procedimento rafforzato di approvazione, spetta al Parlamento, unico titolare del potere di revisione costituzionale. Vi è dunque chi ritiene che l’intesa non possa rappresentare un veto assoluto, ma che vada procedimentalizzata, e regole sul punto andranno approvate a seguito della riforma costituzionale. Resta il fatto che attualmente l’intesa non è prevista e il Parlamento potrebbe unilateralmente modificare d’imperio gli statuti speciali (ferme restando le garanzie internazionali, come l’accordo Degasperi-Gruber), e quindi qualsiasi forma assuma l’intesa si tratta di un rafforzamento giuridico dell’autonomia speciale.

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La riforma costituzionale illustrata – 6 Gli organi di garanzia

scheda(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 13 agosto 2016 con il titolo “La carta e gli organi di garanzia”)

La riforma si concentra prevalentemente su due questioni: ruolo e funzioni del Senato (e a cascata il nuovo sistema parlamentare) e i poteri delle regioni. Non è invece tra i suoi obiettivi toccare le garanzie, e infatti restano immutati i diritti previsti nella prima parte della costituzione, il titolo relativo alla magistratura, i poteri del Presidente della Repubblica e (con una rilevante eccezione) quelli della Corte costituzionale. Nemmeno vengono mutati ruolo e poteri del Presidente del Consiglio, che resta giuridicamente un primus inter pares. Tant’è che secondo alcuni la riforma è un’occasione sprecata per introdurre i necessari correttivi anche in questi ambiti.

Tuttavia, andando ad incidere profondamente sul Parlamento, vengono inevitabilmente toccati alcuni aspetti che potrebbero avere un certo rilievo, sia pure indiretto, per il funzionamento di alcuni organi di garanzia. È il caso, in particolare, del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale, soprattutto per le modalità di elezione.

Il Presidente della Repubblica è oggi eletto a scrutinio segreto dal Parlamento in seduta comune, integrato da tre delegati per ogni Regione (uno per la Valle d’Aosta). Nei primi tre scrutini serve la maggioranza dei due terzi dei componenti dell’assemblea, dal quarto basta la maggioranza assoluta. La riforma opera due modifiche: vista la trasformazione del Senato in camera ‘territoriale’, vengono eliminati i delegati regionali; e soprattutto cambiano le maggioranze per l’elezione. Per i primi tre scrutini resta la maggioranza dei due terzi, dal quarto al sesto servono i tre quinti dei membri dell’assemblea e dal settimo scrutinio bastano i tre quinti dei votanti. Due modifiche apparentemente minori e anzi positive, visto che aumentano la possibilità che il Presidente sia eletto con ampio consenso e non dalla sola maggioranza di governo. Tuttavia il numero complessivo di grandi elettori scenderebbe, in virtù della riforma del Senato e dell’eliminazione dei delegati regionali, dagli attuali 1000 e più (630 deputati, 315 senatori più quelli a vita, circa 60 delegati regionali) a circa 730 (630 deputati, 100-105 senatori). Il che significa che serviranno 487 voti nei primi tre scrutini, 438 dal quarto e meno dal settimo. I favorevoli alla riforma sostengono che si tratta di una garanzia contro l’elezione a maggioranza, i contrari dicono che, grazie al premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale alla Camera, la maggioranza potrebbe eleggersi il ‘suo’ Presidente se dovesse controllare anche il Senato e se dal settimo scrutinio mancassero alle votazioni alcuni rappresentanti dell’opposizione. Sul piano delle speculazioni numeriche hanno ragione entrambi. Resta il fatto che normalmente la partecipazione all’elezione del Presidente è molto alta. In ogni caso, la formula prevista è evidentemente un compromesso tra l’esigenza di garanzia per le minoranze e quella di evitare lo stallo sull’elezione del Presidente.

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La riforma costituzionale illustrata – 5 Decreti legge e rapporto Parlamento-Governo

Microsoft Word - articolo.docx(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 6 agosto 2016 con il titolo “Decreti legge e rapporti col governo”)

Incidendo profondamente sul sistema parlamentare e sul procedimento legislativo, la riforma costituzionale va inevitabilmente a toccare anche i rapporti tra Parlamento e Governo. Gli aspetti più noti di questo nuovo rapporto riguardano il mantenimento della forma di governo parlamentare e la limitazione del rapporto di fiducia alla sola Camera dei Deputati. Ma sul rapporto tra Parlamento e Governo si interviene anche in tema di legislazione.

Come si sa, infatti, nel corso del tempo è inesorabilmente cresciuta la produzione legislativa del Governo, tanto che ormai le leggi di iniziativa parlamentare sono una parte quasi insignificante della legislazione complessiva, e passano solo quando il governo ha un interesse politico a che la responsabilità sia in capo al Parlamento. Un disegno di legge di iniziativa parlamentare ha attualmente solo lo 0,8% di possibilità di essere approvato. Tra decreti legge, decreti legislativi, disegni di legge di iniziativa governativa e questioni di fiducia, il vero legislatore è da tempo il governo. Perfino sulle riforme costituzionali o elettorali.

La riforma interviene a mettere un po’ di ordine in questo sistema, e lo fa soprattutto attraverso due strumenti, tra loro funzionalmente collegati. Il primo riguarda la limitazione del ricorso ai decreti legge. Il nuovo art. 77 cost. (che passa da 95 a 317 parole) rende assai più difficile adottare i decreti legge. Trasferendo in costituzione quanto già affermato nella legislazione ordinaria (specie la legge 400/1988), in costante giurisprudenza costituzionale, nei messaggi del Presidente della Repubblica e da ultimo in un documento approvato dalla commissione affari costituzionali del Senato, vengono elencate le materie in cui il decreto legge non è possibile, tra cui le leggi elettorali o il ripristino di norme dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale, e si stabilisce che i decreti debbano essere immediatamente applicabili ed omogenei per materia (oggi nei decreti si trova invece di tutto).

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La riforma costituzionale illustrata – 4 La legislazione popolare e il referendum

Hands(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 30 luglio 2016 con il titolo “Legislazione popolare e referendum”)

Oltre al procedimento legislativo parlamentare, anche l’iniziativa legislativa popolare e il referendum vengono modificati dalla riforma costituzionale.

L’intervento della riforma sul referendum è duplice. In primo luogo vengono introdotte nuove tipologie di referendum, aggiungendo quelli “propositivi e d’indirizzo, nonché altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali”, da disciplinare con legge costituzionale e da attuare successivamente con legge bicamerale (art. 71). Spetterà a tali leggi specificare la differenza tra i due nuovi tipi di referendum, che finora può ricavarsi solo dalla dottrina e dalla prassi comparata, che sembrano indicare come il referendum propositivo abbia ad oggetto una proposta di legge da sottoporre al corpo elettorale per l’approvazione o il rigetto, mentre quello di indirizzo debba consistere nell’indicazione di un orientamento al Parlamento affinché questo lo traduca in legge – con quali tempi, modi e limiti resta da definire. Parimenti rinviata alla legge è la questione del quorum richiesto per i nuovi referendum e della eventuale modificabilità delle leggi così approvate.

In secondo luogo, la riforma interviene sul più noto e consolidato referendum abrogativo, modificando la disciplina del quorum di validità. Oggi com’è noto il referendum abrogativo è valido se vi partecipa la maggioranza assoluta degli aventi diritto, e ciò è oggetto di critiche perché, giocando sull’astensione fisiologica (e in crescita), il quorum diviene in pratica uno strumento per far fallire la consultazione. La riforma prevede due ipotesi con quorum distinti: se la proposta di referendum è stata sottoscritta da almeno 500.000 elettori (come oggi) ma meno di 800.000, il quorum resta invariato (quindi serve la maggioranza assoluta); se invece la richiesta è stata supportata da più di 800.000 firme, il quorum non andrà più calcolato sugli aventi diritto, ma in base al numero dei “votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati”. In pratica, dunque, il quorum viene significativamente abbassato in presenza di un numero consistente di firme a sostegno del referendum abrogativo.

L’occasione della riforma non è stata purtroppo colta per cambiare l’iter per il giudizio di ammissibilità del referendum da parte della Corte costituzionale. Esso si svolge dopo la verifica delle firme da parte della Corte di Cassazione e nonostante varie proposte di anticiparlo, per evitare di raccogliere e certificare firme su referendum inammissibili, tutto resterà come prima.

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La riforma costituzionale illustrata – 3 Le funzioni del Senato e il procedimento legislativo

Maccari-Cicero(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 23 luglio 2016 con il titolo “Uno sguardo sulle funzioni del Senato”)

Visto come sarà composto il nuovo Senato, e detto che esso sarà un ibrido tra camera politica e camera territoriale, restano ora da vederne le funzioni. Perché è da ciò che farà e da come lo farà che dipenderanno l’effettiva resa istituzionale del nuovo Senato e il funzionamento del sistema di equilibri disegnato dalla riforma.

L’elenco delle funzioni spettanti al Senato è lungo (sparso nel testo della costituzione) e include aspetti molto importanti. Il Senato sarà in primo luogo protagonista del raccordo tra i livelli territoriali. La costituzione riformata menziona in particolare (art. 55) il “raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica” (Regioni e Comuni), il raccordo tra Stato, enti territoriali e Unione europea, la partecipazione alle “decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea”, la verifica dell’impatto “delle politiche dell’Unione europea sui territori”.

Un secondo fondamentale gruppo di funzioni riguarda la valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni. Si tratta, nel primo come nel secondo caso, di funzioni nuove e tutte da costruire, da esercitare talvolta in via esclusiva (come la valutazione delle politiche pubbliche), altre volte in concorso con altri soggetti (la Camera o il Governo). Come queste attività saranno svolte è tutto da definire, sia sul piano regolamentare che su quello dell’efficacia delle funzioni svolte.

Oltre a queste funzioni nuove ve ne saranno altre più classiche: il Senato dovrà rendere parere obbligatorio sull’esercizio del potere sostitutivo dello Stato (art. 120 c. 2), sullo scioglimento di consigli regionali e sulla rimozione presidenti di Regione (art. 126), eleggerà due giudici costituzionali, e potrà disporre inchieste su “materie di pubblico interesse concernenti le autonomie territoriali”, nominando una commissione (art. 82).

Vi è poi la funzione legislativa. Ossia quella che finora è stata l’attività principale del Senato e che si sposterà prevalentemente sulla Camera. Nell’attuale bicameralismo perfetto il sistema è semplice. L’art. 70 consiste oggi di sole 9 parole: “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. Con la riforma si passa a 438 parole, e i procedimenti legislativi diventano quattro.

Il primo è quello paritario, cioè come adesso: serve il voto di entrambe le Camere. Sarà il caso delle leggi costituzionali, delle leggi di tutela delle minoranze linguistiche, di quelle sui referendum, delle leggi elettorali e sulle funzioni di comuni e città metropolitane, sulla partecipazione dell’Italia alle decisioni in ambito europeo, su ineleggibilità e incompatibilità dei senatori, sull’elezione del Senato, sulla ratifica dei trattati UE, su Roma capitale, su condizioni speciali di autonomia per le Regioni (art. 116 c. 3), su accordi e intese regionali con l’estero, su elezioni e emolumenti degli organi regionali, sulla promozione dell’equilibrio di genere nella rappresentanza, sulla migrazione di comuni da una Regione all’altra. A ben vedere, non sono poche materie.

Il secondo procedimento legislativo è quello ordinario, la nuova regola generale: su richiesta di 1/3 dei suoi componenti (entro 10 giorni), il Senato può proporre modifiche alle leggi deliberate dalla Camera (entro 30 giorni). Questa però si pronuncia in via definitiva, a maggioranza semplice. Un procedimento particolare si ha poi quando lo Stato voglia legiferare in una materia di competenza delle regioni ordinarie a tutela dell’unità giuridica o economica o dell’interesse nazionale (art. 117 c. 4). In tal caso il Senato può introdurre modifiche a maggioranza assoluta, e la Camera può superarle solo con la stessa maggioranza. Infine, per le leggi di bilancio e il resoconto consuntivo dello Stato (art. 81), l’esame del Senato è obbligatorio, le osservazioni vanno presentate entro 15 giorni (anziché 30) e la Camera mantiene comunque l’ultima parola. In caso di dubbio sul procedimento da usare decidono d’intesa i Presidenti delle Camere. A maggioranza assoluta il Senato potrà poi presentare disegni di legge in ogni materia, e la Camera dovrà pronunciarsi entro sei mesi.

In estrema sintesi il nuovo Senato avrà pochi poteri e molte funzioni. Di certo il peso e l’utilità del nuovo Senato non dipenderanno tanto dalle sue funzioni legislative (che saranno assai limitate rispetto ad ora) ma dalle nuove competenze assegnategli, in particolare il raccordo tra livelli e la valutazione delle politiche pubbliche. Sotto questo profilo il ruolo del Senato è ancora tutto da scrivere, ed è evidente che il suo peso reale dipenderà da come sarà esercitato. Si è spesso detto che il Senato diventerà un dopolavoro: in base alle funzioni attribuitegli non è affatto così (ed anzi viene da chiedersi come funzioni così importanti possano essere svolte da senatori part-time), ma potrebbe diventarlo se non se ne farà un uso proattivo.