Partecipazione oltre il referendum

sprechblasen(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 06 gennaio 2016)

Se il referendum sia o meno un’abdicazione della politica è tema ricorrente e irrisolto. La risposta dipende dall’impostazione culturale e ideologica e dalla tradizione giuridica. Certo è che anche il ricorso al referendum è una scelta politica. Indipendentemente dal fatto che sia una decisione meditata o una scelta dettata dall’incapacità di decidere altrimenti.

Il 2016 sarà un anno ricco di referendum. Dal piano locale (aeroporto e “progetto Benko”) a quello internazionale (nel Regno Unito sulla permanenza nell’Unione europea, la cd. “Brexit”), si celebreranno consultazioni importanti. E sulla stessa opportunità o possibilità di indirle si giocheranno i destini politici di molti governi (si pensi alla Spagna e alla Catalogna).

La forza del referendum è tutta politica. L’esito referendario ha comunque una forza maggiore rispetto a qualsiasi atto normativo, indipendentemente dalla sua natura giuridica, tanto che anche i quesiti meramente consultivi hanno una portata politica deflagrante: chi si ricorda che erano consultivi i referendum su Piazza Vittoria o quelli francese e olandese del 2005 sul trattato che istituiva una costituzione per l’Europa?

Per contro, il limite del referendum è la sua logica binaria. Non si esce da un sì o un no. In questo è uno strumento fortemente politico che però cancella l’essenza stessa della politica, che è, come ricordava Paolo Campostrini su questo giornale, la mediazione e la ricerca di un punto di incontro. In altre parole, il referendum è uno strumento politico radicale. Ma soprattutto è uno strumento maggioritario. Come nelle assemblee elettive, anche nel referendum vince la maggioranza (o, come più spesso accade, una minoranza qualificata, o la maggioranza di una minoranza, ma sul piano giuridico poco importa). È su questo – e non sulla opinabile distinzione tra ciò che è importante e ciò che non lo è – che va testata l’opportunità di un ricorso al referendum: quando deve decidere brutalmente la maggioranza e quando invece è meglio ricorrere a strumenti che includano le minoranze nella decisione?

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La notte della democrazia

senato(pubblicato su http://www.salto.bz/article/25092015/la-notte-della-democrazia il 26 settembre 2015)

Considerazioni inattuali su una macchina rotta.

Qualche milione, qualche migliaio o qualche decina? Ancora non è chiaro quanti saranno alla fine gli emendamenti alla riforma costituzionale su cui si inizierà a votare la prossima settimana.

La frustrazione maggiore in politica (o almeno in parlamento) è l’assoluta impossibilità di programmare, e la conseguente schiavitù della contingenza. Troppe le variabili che possono impazzire, ed anzi impazziscono a turno, in modo prevedibilmente imprevedibile. Altrettanto imprevedibili sono le priorità che di volta in volta si affermano e determinano l’andamento dei lavori, e ancor più oscuri sono i meccanismi che le generano.

La riforma costituzionale in discussione è ormai da tutti definita “riforma del Senato”, e la questione delle modalità di selezione dei futuri senatori ha paralizzato il discorso politico (e giornalistico: non si sa mai se nasca prima l’uovo o la gallina) nazionale negli ultimi mesi. Eppure quella del Senato è solo una parte della riforma complessiva, e nemmeno la più significativa (basti pensare che cambia radicalmente l’assetto regionale nell’indifferenza generale). E meno significativa ancora è la questione dell’elettività diretta o indiretta dei senatori. Parlare di questo senza chiarire che diamine debba fare il nuovo Senato è come parlare della carta da parati senza avere fatto il muro. Ma tant’è, le priorità si affermano secondo logiche strane, e non c’è verso di cambiarle. Se si fa notare l’assurdità della discussione, tutti concordano e immediatamente dopo ricominciano esattamente come prima. Credo faccia parte delle dinamiche dell’umanità disorganizzata. Dove c’è organizzazione le cose non sono troppo diverse, ma esiste qualcuno (o qualche struttura) che le seleziona e le impone, senza garanzia che siano meno astruse. Per questo in Italia (ma sempre più anche altrove) alla disorganizzazione si reagisce con leaderismi fugaci, che altro non sono che tentativi di dare ordine alle cose secondo le preferenze di chi, pro tempore, si assicura un margine di manovra maggiore di altri, e prova a esercitarlo finché riesce. Cioè finché viene scalzato dal leader successivo, destinato a fare la stessa fine. Il bello è che qualcuno pensa che si siano dietro i grandi vecchi. Magari. Almeno li si potrebbe combattere, stile James Bond contro la Spectre. Molto gradevole da vedere al cinema, ma palesemente poco realistico.

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Referendum e confini

foto 2011(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 17 marzo 2014 col titolo “Referendum e confini”)

Il referendum con cui la popolazione della Crimea ha dichiarato la propria volontà maggioritaria di secedere dall’Ucraina e di entrare a far parte della Federazione russa è senza dubbio un atto illegittimo.

Lo è sotto il profilo del diritto interno e sul piano del diritto internazionale, almeno per come questi sono oggi. E lo stesso vale per la risoluzione adottata solo pochi giorni prima dal Parlamento della repubblica autonoma. Questo è tuttavia solo il dato giuridico più elementare dell’intera vicenda.

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Democrazia più ricca se si partecipa

foto 2011(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 16 novembre 2013)

Quasi in silenzio si è celebrato in Italia il più grande esperimento di democrazia partecipata mai tentato finora in Europa. Si è chiusa infatti la consultazione online lanciata alcuni mesi fa dal Governo in tema di riforme istituzionali, denominata “piattaforma partecipa”. Nonostante il ritornello secondo cui “i problemi sono ben altri” e “questi temi non interessano la gente”, oltre 203.000 persone hanno risposto al questionario, dedicando alla sua compilazione in totale 4 milioni di minuti, senza contare il tempo necessario per prepararsi e riflettere.

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La democrazia e i suoi limiti: il caso Egitto

foto 2011(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 27 agosto 2013 )

In Egitto sta andando in scena l’ennesima, tragica manifestazione di un conflitto permanente, quello tra la democrazia formale e i suoi limiti. Il punto di fondo è sempre lo stesso: quando il potere conquistato legittimamente diventa illegittimo, come si accerta questa degenerazione e chi ha il potere di farlo? Se un governo democraticamente eletto abusa del potere conferitogli ed instaura un regime non democratico è possibile o persino doveroso contrastarlo? E con quali mezzi? Quale legittimazione ha un potere non direttamente elettivo (nel caso egiziano l’esercito) di opporsi alla volontà della maggioranza, posto che questa sia stata espressa con elezioni libere e regolari, e non viziate da una legge elettorale distorsiva? Non avendo sempre risposte univoche, il mondo occidentale non riesce a reagire in modo adeguato alla crisi egiziana, e a molte altre prima di questa, dall’Algeria alla Thailandia, fino oggi (a parti invetrite) alla Siria.

La democrazia, si ricorda sempre, è il migliore dei sistemi possibili. Ma non ha, in sé, sufficienti anticorpi. Specie nei contesti in cui, per ragioni storiche, culturali, religiose o politiche, manchi una diffusa e radicata cultura della sua importanza. In altre parole, la democrazia elettiva funziona in tanto in quanto esista un consenso implicito nella società che ammette alla competizione per il potere solo forze che ne accettano i limiti strutturali, tra cui, in primis quello di non abusarne. Quindi, ad esempio, di non modificare con la sola forza dei numeri la legislazione elettorale per danneggiare gli avversari, di non sottoporre la giustizia al controllo della politica, e di non piegare le regole democratiche al primato di una ideologia o di una religione.

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