Vento europeo e peculiarità italiane

(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 7 marzo 2018 con il titolo “Vento europeo e italiano”)

Per quanto abbia provocato un terremoto politico, l’esito delle elezioni ha confermato le attese ma anche e soprattutto le tendenze già da tempo in atto nel panorama politico italiano ed europeo. Alcune dinamiche sono frutto del vento che spira in Europa: il voto contro l’establishment, la crescita delle destre specie se estreme, la crisi nerissima dei partiti socialdemocratici, la paura del nuovo che spinge a travolgere il vecchio. Altre sono invece tipicamente italiane, ed è su queste che occorre soffermarsi, perché sono più profonde e meno transeunti, e forse proprio perché sono ormai interiorizzate nel sentire collettivo sono state assai meno evidenziate nei commenti.

La prima e più importante è la tendenza alla penalizzazione della maggioranza uscente e in particolare del suo partito principale. Dal 1992 ad oggi questa è una costante delle elezioni politiche. In Italia il voto anti-establishment si è quasi ‘istituzionalizzato’, perché va oltre la rabbia nei confronti del governo di turno. È piuttosto espressione di un clima negativo per cui tutto va sempre male, e solo dicendo che va male si raccolgono voti. Il loop negativo e la debolezza della politica sono tali per cui la stessa politica deve rincorrere questa dinamica, e alimentare il senso di distanza. I messaggi positivi quasi irritano l’elettore. Renzi è stato osannato quando faceva il rottamatore e rottamato quando ha fatto lo statista; e Berlusconi, il Presidente del Consiglio più longevo della storia repubblicana, a pochi giorni dalle elezioni ha affermato di provare schifo per la politica. Questo atteggiamento crea per l’elettore un comodo ‘effetto Dorian Gray’: la colpa di tutto è della politica, mentre io posso disinteressarmi della dimensione pubblica, aspettare che tutto cali dall’alto e illudermi che la res publica sia qualcosa di diverso da me, e quindi naturalmente esserne disgustati. Producendo esattamente ciò di cui ci si lamenta. Così chiunque voglia conquistare il potere deve cavalcare la tigre, lisciarla mentre la cavalca, e poi esserne inesorabilmente sbranato.

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Cosa terrorizza i tedeschi

(intervista di Sarah Franzosini, pubblicato su https://www.salto.bz/it/article/23092017/cosa-terrorizza-i-tedeschi il 23 settembre 2017)

Il senatore Francesco Palermo sulle elezioni in Germania, il rassicurante pragmatismo di Merkel, l’influenza dell’estrema destra e l’evergreen del „Keine Experimente“.

salto.bz: Senatore Palermo, domani (24 settembre) la Germania andrà alle urne. I sondaggi danno per vincente la CDU/CSU di Angela Merkel, dopo che l’“effetto Schulz”, candidato della SPD, si è di fatto sgonfiato. Non ci saranno sorprese, dunque?
Francesco Palermo: Non c’è dubbio su quale sarà il futuro partito di maggioranza ma la questione è come vincerà la CDU/CSU e quali saranno i risultati delle altre forze politiche in corsa, e di conseguenza quale coalizione si formerà. Da questo dipenderà anche la politica tedesca nei confronti dell’Europa. Le diverse opzioni sul tavolo sono essenzialmente due, una è un’alleanza con i liberali e un’altra la Große Koalition con i socialisti.

Scarta quindi la cosiddetta ipotesi “Jamaica”, ovvero una coalizione a tre tra CDU, i liberali della FDP e i Verdi?
Una possibilità molto improbabile perché i Verdi, nonostante il successo raccolto in passato, sembrano spariti dalla scena, non sono in effetti riusciti a posizionarsi in campagna elettorale pur potendo puntare su molti temi a loro cari, come l’ambiente e l’integrazione, ad esempio. Non si prevede quindi un risultato tale da porli come dei probabili partner di governo. A livello federale, poi, la CSU è piuttosto incompatibile con i Verdi che a loro volta non vanno d’accordo con i liberali.

La Große Koalition sarebbe auspicabile anche per l’Italia dal punto di vista delle relazioni con la Germania?
Assolutamente sì, la prosecuzione della Grande coalizione sarebbe l’ipotesi migliore per l’Italia dal momento che la politica sarebbe sicuramente quella di minore rigore economico nei confronti del nostro paese. Questa compagine di governo, che ha di fatto sempre amministrato bene, significherebbe in generale avere una politica più aperta verso la stessa UE. C’è tuttavia da sottolineare il fatto che una coalizione di questo genere penalizzi molto la SPD, che pagherebbe un tributo pesante in termini di consenso, molte voci interne al partito si chiedono infatti “perché dobbiamo portare il nostro expertise, la nostra capacità di governo, perché poi ne approfitti Angela Merkel?”. Il tema dei partner delle coalizioni, in ogni caso, va anche al di là della Germania, lo vediamo anche in Austria, in Italia, nello stesso Alto Adige: ritrovarsi in raggruppamenti di questo genere è deleterio, si viene di fatto schiacciati politicamente e si perde molto consenso.

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Così si creano le democrature

(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 23 aprile 2017)

Il referendum turco ha messo un ulteriore mattone per l’edificazione delle democrature. Cioè vie di mezzo tra democrazie e dittature, che sempre più caratterizzano il XXI secolo. È solo l’ultimo tassello di un inquietante mosaico che si va lentamente componendo. Il passaggio immediatamente precedente è forse ancora più interessante, ma è passato sotto silenzio soprattutto in Italia. Si tratta delle recenti elezioni presidenziali in Serbia, vinte al primo turno da Alexandar Vucic con il 55% dei voti. Quelle elezioni dicono molto rispetto ad alcuni fenomeni emblematici dell’attuale momento politico in Europa e non solo.

Primo: la ricerca dell’uomo forte. Vucic era primo ministro e passa direttamente al ruolo di presidente. Era dai tempi di Milošević che il presidente non veniva eletto al primo turno, con la maggioranza assoluta. Non può non scorgersi qualche analogia con le tendenze all’accentramento del potere cui si assiste in modo prepotente “a est di Vienna” da qualche tempo: Russia, repubbliche caucasiche, Turchia, Macedonia, Ungheria, Croazia e altri. Al pari di quanto avviene in molti di questi Paesi, il leader è un politico di lungo corso (già ministro con Milošević), che ha saputo attraversare diverse stagioni politiche e trovarsi al posto giusto nel momento in cui le condizioni erano favorevoli per presentarsi come risposta ai tre principali bersagli dell’autocrazia in tutto il mondo: l’instabilità politica, l’incompetenza delle classi dirigenti e la convinzione che il Paese sia vittima dei “poteri forti” internazionali. Una risposta che passa attraverso la verticalizzazione del potere nelle mani di una persona e più sottilmente attraverso le sue strutture di fiducia rappresentate dal suo partito, ridotto a un circolo di fedelissimi che controlla i gangli del potere. Accade ormai in numerosi Paesi della parte orientale d’Europa e le avvisaglie che possa accadere anche più a ovest ci sono tutte.

Secondo: disaffezione e disinteresse popolare. L’affluenza si è fermata al 54,5%, il che significa che la tendenza al rafforzamento del potere del leader va di pari passo con la scarsa motivazione dell’elettorato. L’investitura di un leader forte (e in molti casi potenzialmente autoritario) avviene democraticamente con il consenso di una minoranza. Se, come in questo caso, vota la metà degli elettori e la metà di quelli che si recano alla urne vota per un candidato, questo ne esce elettoralmente molto forte ma numericamente è sostenuto da un quarto della popolazione.

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Coalizioni e leggi elettorali

foto 2011(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 4 gennaio 2014 col titolo “Le coalizioni e le leggi elettorali”)

Due mesi e mezzo in Germania e in Austria, tre mesi in Finlandia, due mesi nei Paesi Bassi, un mese e mezzo in Norvegia, fino al record di un anno e mezzo in Belgio. È il tempo intercorso tra le ultime elezioni e la formazione del governo nei Paesi in cui vige un sistema elettorale proporzionale. Molti altri se ne potrebbero aggiungere. In Europa questi sono i tempi richiesti, con la sola eccezione della Spagna, dove un solo partito ha ottenuto la maggioranza assoluta e la formazione del governo è stata più rapida. E con l’opposta eccezione della Svizzera dove proporzionale non è solo il sistema elettorale ma anche il governo, cui partecipano quindi tutte le maggiori forze politiche e dove le elezioni servono solo a stabilire i rapporti di forza tra queste.

In questo quadro, pertanto, il fatto che dalle elezioni provinciali all’insediamento della nuova Giunta altoatesina saranno passati circa due mesi e mezzo non è affatto sconvolgente, ma è anzi in linea con quanto accade nelle democrazie proporzionali europee. La perdita della maggioranza assoluta da parte della SVP ha infatti portato anche l’Alto Adige nel novero di questi sistemi, visto che prima le trattative per la formazione della giunta erano poco più che formali.

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Dopo le elezioni: ora le riforme

Al di là degli aspetti strettamente politici, le elezioni provinciali di Bolzano segnalano un forte desiderio di cambiamento, ma anche una polarizzazione intorno alle decisioni fondamentali per la nostra provincia. Questo riguarda anche i rapporti tra i gruppi linguistici. “Ora si presenta un’occasione storica per riformare l’autonomia, insieme e subito. Il treno passa adesso, tra cinque anni sarà troppo tardi. Non si può pensare di attendere sempre condizioni politiche ideali, perché queste non ci saranno mai.”