Il dilemma delle riforme costituzionali

(pubblicato sul quotidiano Alto Adige dell’11 ottobre 2019 con il titolo “Parlamento, ‘tagliare’ con giudizio”)

Con l’approvazione in seconda lettura da parte della Camera, si è completato l’iter parlamentare per la legge di revisione costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari. Com’è noto, qualora la riforma dovesse entrare in vigore, i deputati passerebbero da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200 (più quelli a vita). La politica tende a celebrare anche le mere proposte vendendole come risultati acquisiti, quindi era comprensibile che il Movimento 5 stelle, che della riforma ha fatto un cavallo di battaglia, celebrasse in modo plateale con tanto di forbici un traguardo importante.

Importante ma non ancora definitivo, perché è certo che sarà richiesto un referendum confermativo, possibile grazie al fatto che il Senato ha approvato il provvedimento in seconda lettura con la maggioranza assoluta ma non dei due terzi. Consentendo così alla Camera di votare in modo plebiscitario a favore e a tanti deputati per nulla convinti di non esporsi al linciaggio mediatico. Poteri del bicameralismo. Il Vicepresidente Giachetti ha incarnato questa contraddizione dichiarando espressamente il proprio voto favorevole alla riforma e contestualmente l’intenzione di raccogliere tra i deputati le firme per il referendum confermativo (basta un quinto dei componenti di ciascuna Camera) e poi di porsi alla guida della campagna per il no.

La vicenda di questa riforma costituzionale è istruttiva e indicativa. Istruttiva perché, auspicabilmente, aiuterà a diffondere una maggiore conoscenza dei delicati meccanismi della costituzione. La composizione delle Camere è una cosa serissima, non riducibile ai risparmi di spesa. Perché se si tira un filo della costituzione si muove tutto. Si può fare, forse si deve fare, perché il modello di rappresentanza tutto politico immaginato dai costituenti è poco adatto alla società attuale, tanto più in un contesto di coma (si spera non irreversibile, ma al momento sembra tale) dei partiti. Ma si deve fare con giudizio, non con superficialità. È stato approvato un documento di maggioranza che elenca tutti i punti su cui bisognerà intervenire a seguito di questa riforma. E sono punti complessi, su cui rischiano di saltare gli equilibri sia politici sia istituzionali: legge elettorale; rappresentatività dei territori col superamento della base regionale per l’elezione del Senato; rappresentatività di genere; rappresentatività delle minoranze linguistiche (non guardiamo solo alla provincia di Bolzano, fortunatamente tutelata: altrove le minoranze non hanno voce) e delle minoranze politiche; limiti di età per l’elettorato attivo e passivo al Senato; riduzione del numero dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica; modifica dei regolamenti parlamentari. Il tutto “aperto al contributo dei costituzionalisti e della società civile”, ça va sans dire… Una lista di propositi per i quali è assai improbabile che bastino i tre anni di legislatura rimanenti, ammesso che si trovi l’accordo sulla declinazione dei principi indicati. E che qualcuno spieghi come si concilia una maggiore rappresentatività (di genere, di territori, di minoranze) con meno rappresentanti. Insomma c’è consapevolezza del fatto di avere iniziato dalla fine, e ora si cercherà di costruire l’edificio sotto il tetto da cui si è cominciato.

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Le nebbie di Dover e la chiarezza costituzionale

(pubblicato sulla Rivista Il Mulino (https://rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:4846?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=%3A%3A+Rivista+il+Mulino+%7C+edizione+online+%3A%3A+%5B6953%5D#.XWz0HcfC4ow.twitter) il 2 settembre 2019) La scorsa settimana circolava un tweet che andava al punto. Diceva pressappoco così: l’Italia ha trovato una nuova maggioranza parlamentare, il Regno Unito ha perso la sua monarchia parlamentare. Il … Continue reading

Le nebbie di Dover

(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 2 settembre 2019 con il titolo “L#elefante Boris Johnson”)

La scorsa settimana circolava un tweet che andava al punto. Diceva pressappoco così: l’Italia ha trovato una nuova maggioranza parlamentare, il Regno Unito ha perso la sua monarchia parlamentare.

Il nuovo Primo Ministro Boris Johnson è entrato nell’agone politico come un elefante in una cristalleria. Un atteggiamento molto in voga negli ultimi tempi, a tutte le latitudini. E sulle radici di comportamenti inusitati, sfacciati e potenzialmente sovversivi occorrerebbe riflettere più di quanto di faccia con l’abituale sorpresa seguita dall’altrettanto abituale scrollata di spalle…

Diventato Primo Ministro sulla scia del suo atteggiamento duro sulla Brexit, deciso a portare avanti l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea anche senza un accordo con Bruxelles, ha compiuto due passi coordinati ed estremamente pericolosi nel giro di pochi giorni.

Dapprima ha posto all’Europa una (a suo dire) alternativa secca: o Bruxelles accetta un confine reale in Irlanda del Nord, o Londra è disposta ad un’uscita senza accordo. Questo almeno a parole, perché da autorevoli previsioni una hard Brexit, quindi un’uscita senza accordo, avrebbe conseguenze catastrofali per il Regno Unito, almeno inizialmente, e a poco servirebbe la partnership privilegiata che Trump (una specie di gemello di Johnson, separato nella culla) dichiara di voler offrire a Londra una volta uscita dalle presunte grinfie dell’Unione europea. Anche questa tutta da verificare, ma contano i messaggi semplificati e di facile appiglio. Tanto che in alcune cancellerie si sta studiando l’ipotesi di andare a vedere le carte di Londra, e accettare la provocazione di una Brexit senza accordo. Scommettendo sulla necessità di Johnson di frenare all’ultimo. Ma con le teste calde non si sa mai…

Il secondo passo Johnson lo ha compiuto sul piano interno, di fatto sospendendo i lavori del Parlamento fino al limine della Brexit, per evitare che l’assemblea possa condizionare i suoi movimenti. Il senso della mossa è chiaro. La Corte suprema ha chiarito che il processo di distacco dall’Unione è in capo al Parlamento, ed è stato il Parlamento ad affossare ripetutamente l’accordo negoziato da Theresa May con l’Unione europea, costringendo l’ex Premier alle dimissioni. Il decisionista Johnson non vuole correre il rischio di restare impiccato al Parlamento come accaduto alla sua predecessora. E come può sempre accadere nelle democrazie parlamentari – Salvini docet, ma la storia è ricca di esempi analoghi.

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