
(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 26 maggio 2022) Domenica 29 maggio si vota in Provincia di Bolzano per un referendum di grande importanza, ma di cui si parla poco e si sa pochissimo. Si dovrà decidere se far entrare … Continue reading
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(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 19 dicembre 2021 con il titolo “La lezione di quattro referendum”)
La Nuova Caledonia è uno dei luoghi più distanti dall’Europa. È una collettività francese d’oltremare, retaggio del passato coloniale, in cui da almeno una quarantina d’anni si discute dell’eventualità e dei modi di una possibile indipendenza. Comprensibile a partire dalla distanza dalla madrepatria, circa 17.000 chilometri, e dalla radicale diversità culturale della popolazione locale rispetto ai discendenti degli ex coloni francesi. Certo, ci sono anche molti aspetti che inducono alla prudenza rispetto a una separazione dalla Francia, come la sopravvivenza economica di una collettività ampiamente sussidiata da Parigi, che difficilmente, con i suoi 270.000 abitanti, potrebbe evitare di essere inglobata dall’espansionismo cinese nel Pacifico.
Cosa c’è di interessante a parte il lato esotico? C’è che la scorsa settimana si è tenuto il quarto referendum sull’indipendenza dalla Francia. E già questo è particolare, perché normalmente i referendum indipendentisti non si ripetono, almeno non spesso, e non tante volte (il Québec ne ha svolti due, vedremo se ne sarà concesso un altro alla Scozia). Quattro perché dopo il primo, nel 1987 e stravinto dai contrari all’indipendenza, si è deciso di guidare il processo attraverso il diritto, per evitare che una decisione così importante fosse presa da maggioranze occasionali, o sulla scorta di emozioni momentanee. Con un apposito accordo tra il governo francese e le autorità locali siglato nel 1988 (e approvato in un referendum) si è prevista la legittimità dell’indipendenza dell’isola, attraverso un lungo percorso in più tappe, durate oltre quattro decenni. Nel 1998 fu attribuita alla Nuova Caledonia e alla sua popolazione originaria una maggiore autonomia, da sperimentare per un periodo ventennale. Al termine, la popolazione della collettività d’oltremare avrebbe potuto esercitare il diritto di autodeterminazione attraverso votazioni referendarie. Non una, ma tre, ad intervalli biennali. Così il primo referendum si è tenuto nel 2018, il secondo nel 2020 e il terzo alcuni giorni fa. Sarebbe bastato conseguire la maggioranza in uno solo dei tre referenda per far scattare un ulteriore processo negoziale che avrebbe condotto all’indipendenza dell’isola.
(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 12 gennaio 2021)
Si chiude con ignominia il pessimo quadriennio di Trump alla Casa Bianca. Dopo una lunga serie di picconate al decoro istituzionale prima ancora che alla costituzione, a confronto delle quali quelle italiche di cossighiana memoria sembrano affettuosi buffetti, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’assalto al Congresso da parte di folcloristici fanatici, particolarmente sensibili alle sparate presidenziali.
Si è trattato a ben vedere della prevedibile conseguenza della retorica populista in salsa americana. Il populismo è una sineddoche: significa scambiare una parte per il tutto. Una parte di popolo, attraverso un leader, ritiene (più o meno consapevolmente) di rappresentare il popolo intero. O di doverlo fare per preservare ciò che ritiene essere il fondamento della società. Un fondamento maschile, bianco e religioso (in occidente), che diventa maschile, barbuto e religioso in molti Paesi islamici, e via sfumando a seconda del contesto. La salsa americana aggiunge un pizzico di giusnaturalismo a tutto questo: se il potere è ingiusto, è un obbligo ribellarsi. Anche per questo la costituzione garantisce il diritto di portare armi. Poco importa che le elezioni siano state regolari, come accertato da molti tribunali federali pieni di giudici repubblicani, fino alla Corte Suprema. Se l’auto-proclamato interprete del volere del popolo sostiene che siano illegittime, allora lo sono ed è doveroso ribellarsi. Un sistema chiuso nella sua logica perversa.
Non solo è una buona notizia che Trump se ne vada. La speranza è anche che quest’ultima vergognosa pagina di un mandato disastroso apra gli occhi anche a chi, in America e altrove, non ha voluto vedere quanto accadeva. Ex malo bonum, verrebbe da dire.
(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 28 ottobre 2020)
Le dinamiche che vanno sviluppandosi intorno alle misure di contrasto alla pandemia sono di estremo interesse per l’impatto che hanno sul funzionamento della società. Si tratta di questioni che dureranno molto di più del virus e influenzeranno le regole del nostro vivere organizzato per tempi assai più lunghi. Ma come sempre gli aspetti sistemici interessano meno di quelli a breve o brevissimo termine.
Nella costituzione italiana c’è una lacuna di fondo: i provvedimenti emergenziali sono disponibili da parte di maggioranze politiche occasionali. Vale per i decreti legge (adottati dal governo e soggetti a conversione a maggioranza semplice delle camere, verosimilmente quindi da parte della maggioranza che il governo sostiene), e vale per lo stato di emergenza sanitaria, disciplinato addirittura da una legge ordinaria (sulla protezione civile), che prevede la sua semplice dichiarazione da parte del governo. In altri ordinamenti, dalla Germania alla Spagna, fermo restando che la regia delle emergenze non possa che passare nelle mani del governo centrale, sono i parlamenti (a maggioranza assoluta o qualificata) ad accendere e spegnere l’interruttore del diritto emergenziale. Su questo punto sarebbe quanto mai opportuno un adeguamento della costituzione, ma pare che ci dobbiamo accontentare della riduzione del numero dei parlamentari…
In un contesto di questo tipo, gli unici reali contropoteri sono gli enti territoriali. Regioni e comuni dispongono, per il proprio territorio, di poteri simili a quelli del governo per la gestione di emergenze sanitarie. Ciò può portare a qualche sovrapposizione, a confusione, talvolta all’intervento poco responsabile da parte di qualche amministrazione. Ma sarebbe grave se non esistesse questo potere, a dimostrazione della portata intimamente democratica dell’autonomia. Finora però l’intera gestione della pandemia è avvenuta con atti amministrativi: decreti del Presidente del Consiglio, e ordinanze regionali (e comunali). Il cui controllo spetta ai tribunali amministrativi.
(Versione integrale dell’articolo pubblicato il 13 settembre 2020 sul quotidiano Alto Adige col titolo “Referendum, una vera frittata”)
Ci sono valide ragioni a sostegno del sì come del no al referendum costituzionale del 20 e 21 settembre. A favore dell’approvazione della riforma costituzionale c’è che si tratta di una revisione puntuale, a fronte delle fallite proposte strutturali del 2006 e del 2016. Una riforma che potrebbe metterne in moto altre, quantomai necessarie, e che ha un valore simbolico di semplificazione e risparmio. Contro la riforma si obietta che manca di visione, giacché nessuno sa se e quali altre riforme potrebbero seguire, rischiando di lasciare un parlamento poco funzionale e meno rappresentativo, a tutto svantaggio di donne e minoranze. E che il valore simbolico è quello dell’antipolitica distruttiva e non costruttiva.
Il problema non è certo il taglio dei parlamentari. Con alcuni aggiustamenti il Parlamento può benissimo lavorare con numeri minori. Forse anche meglio, se gli aggiustamenti sono buoni. In fondo la gran parte delle altre democrazie ha parlamenti proporzionalmente più piccoli. Di questi aggiustamenti si parla in modo generico solo in un breve documento politico di maggioranza dell’ottobre 2019, che ne menziona tre: legge elettorale, regolamenti parlamentari e parificazione dell’elettorato attivo e passivo per entrambe le Camere. Meno del minimo sindacale, e in un anno non si è realizzato nulla.
Il problema non sono nemmeno le riforme che non si faranno ma che andrebbero fatte con urgenza, come la rappresentanza dei territori, la trasformazione del Senato, il rapporto di fiducia, uno statuto delle opposizioni. O meglio, non sarebbero un problema se ci fosse un piano su cosa e come continuare sul cammino delle riforme. Ma purtroppo questo piano non c’è, ed è impensabile che venga elaborato e attuato da questo Parlamento, dopo aver assistito al teatro dell’approvazione di questa legge di riforma, votata nell’ultimo passaggio alla Camera quasi all’unanimità (553 sì, 14 no, 2 astenuti), ma solo dopo che il Senato aveva evitato di raggiungere in seconda lettura la maggioranza dei due terzi, rendendo così possibile il referendum. Un gran numero di parlamentari ha votato la riforma sperando, nemmeno tanto segretamente, che venisse affossata dal referendum. La strumentalizzazione della costituzione per ragioni politiche contingenti (salvare la legislatura è la più nobile di queste, ma ce ne sono altre, come mettere in difficoltà il governo) può essere un valido argomento sia a favore della necessità di punire un parlamento meschino e votare sì, sia della voglia di smascherarne il machiavellico giochino e votare no.
(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 23 febbraio 2019 con il titolo “Cosa c’è dentro il terrore dell’autonomia”)
È bastato un ulteriore, anche se non definitivo, passo in avanti verso la chiusura delle intese con Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna per la concessione a tali regioni di ulteriori competenze, per scatenare una nuova ondata di indignazione, paura, reazioni scomposte e provocatorie. Si è coniato lo slogan della “secessione dei ricchi”. Si sono annunciate iniziative teatrali e giuridicamente fantasiose, come quella del sindaco di Napoli che intende proporre un referendum (e ti pareva) per l’autonomia della città.
Ma cosa c’è dietro il sacro terrore dell’autonomia che anima così tanta parte della classe dirigente del Paese? Fino al punto da indurre molti difensori della supposta “costituzione più bella del mondo” a protestare in modo veemente contro l’attuazione di una disposizione prevista, all’art. 116 c. 3, proprio in questa costituzione?
Dietro c’è qualcosa di molto semplice e altrettanto preoccupante: l’assoluta mancanza di una cultura dell’autonomia e di qualsiasi reale comprensione di ciò che l’autonomia significhi e comporti. Un problema che affligge non solo le burocrazie e la classe politica nazionale, ma anche quelle regionali – ed è semmai qui che sta il nodo potenzialmente problematico.
(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 2 febbraio 2019 con il titolo “L’erosione della Costituzione”)
La costituzione è il perimetro entro il quale si può muovere la politica con le sue scelte discrezionali. È il ring nel quale il legittimo conflitto di idee deve svolgersi secondo regole prestabilite, la cui interpretazione è affidata a degli arbitri, i più importanti dei quali sono la Corte costituzionale e il Presidente della Repubblica. È pertanto non solo legittimo ma anzi doveroso che la politica ricorra ad argomentazioni costituzionali per giustificare le proprie azioni e le proprie tesi, perché solo dentro la costituzione può svolgersi la politica. La costituzione è, per certi aspetti, la versione laica del principio di esclusività tipico della religione: non avrai altro Dio all’infuori di me. E non può esserci politica al di fuori della costituzione.
Come troppo spesso accade anche con la religione, però, non è raro che i precetti vengano piegati ad interpretazioni funzionali alla preferenza politica del momento. E che tale torsione venga compiuta non già dagli arbitri, bensì dai giocatori.
Un esempio di particolare interesse si è registrato in questi giorni, quando il ministro dell’interno ha invocato l’articolo 52 della costituzione per giustificare la propria politica in materia di sbarchi. Nelle due pur diverse vicende della nave Diciotti da un lato e della nave Sea Watch dall’altro, il ministro Salvini ha rivendicato la scelta di negare l’accesso ai porti italiani come un obbligo costituzionale, fondato sul “sacro dovere” di ciascun cittadino alla “difesa della patria”, previsto appunto dall’articolo 52 della costituzione.
La disposizione non ha naturalmente nulla a che vedere con le questioni di cui si tratta. Il suo ambito di riferimento è esclusivamente la difesa militare, come si evince dai lavori preparatori e dagli altri commi dell’articolo, che prevedono rispettivamente l’obbligatorietà del servizio militare, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, e la natura democratica dell’ordinamento delle forze armate. È per questo che l’articolo 52 non fu oggetto di particolare dibattito in assemblea costituente, impegnata a sottolineare il carattere pacifista della costituzione. Non a caso il testo definitivo è praticamente identico a quello della prima bozza, caso rarissimo nei lavori della costituente. Erano tutti d’accordo su una previsione che doveva dare copertura costituzionale al servizio militare e alle forze armate.
(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 09 ottobre 2018 con il titolo “Premio Langer in Medio Oriente”)
Il Premio Langer 2018 è stato assegnato all’Istituto Arava per le Scienze Ambientali, che ha l’obiettivo di formare professionisti ambientali del e nel Medio Oriente e di contribuire ad alleviare il conflitto israelo-palestinese attraverso la collaborazione ambientale. Con questo premio viene ribadita l’attualità di tre aspetti fondamentali del pensiero e dell’opera di Langer.
Il primo è il ruolo dell’ambiente come veicolo di pace. L’Istituto premiato è consapevole della difficoltà di affrontare di petto il conflitto israelo-palestinese. Nel contesto attuale questo è anzi impossibile. Esistono però modi per aggirare, smontare, depotenziare il conflitto, attraverso azioni concrete sui temi di interesse comune. Uno di questi, forse il più importante, è l’ambiente. L’Istituto Arava è stato fondato nel 1996, nel sud est di Israele, in un territorio desertico e di confine. Da allora il clima è decisamente peggiorato, sia a lvello politico, sia in chiave ambientale. Da un lato si è avuto un avvitamento del conflitto, in un contesto nazionale, regionale e internazionale sempre meno favorevole. Dall’altro vi sono stati il cambiamento climatico, l’accrescita desertificazione, la scarsità idrica, il degrado ambientale. La tutela dell’ambiente e la gestione oculata delle risorse sono interesse di tutti: solo la collaborazione può salvare l’ambiente e solo la pressione ambientale può convincere che l’accordo è più produttivo del conflitto. Perché lo scontro per le risorse è una delle principali sfide del futuro, come si vede dal collegamento tra degrado ambientale e migrazioni. La pace, non solo in Medio Oriente, passa da una gestione attenta delle sfide ambientali.
(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 7 agosto 2018)
Il diritto non è tanto diverso dalla tecnologia. Entrambi sono prodotti dell’uomo, non della natura. Entrambi servono a risolvere problemi e a migliorare la vita. Entrambi richiedono continui perfezionamenti, per adattarsi allo scopo che perseguono. Però verso la tecnologia c’è una presunzione benevola, e quando uno dei prototipi di auto senza conducente uccide un passante (è accaduto in marzo) lo si considera uno spiacevole incidente sulla strada del progresso. Mentre verso la legge c’è una presunzione di sfiducia. Vero è che dietro ad una tecnologia ci sono soltanto gli interessi economici di chi la produce, mentre dietro a una legge ci sono tantissimi diversi interessi, sfaccettature, motivazioni, ricadute sociali non sempre prevedibili – il che rende peraltro la legislazione una tecnologia assai più sofisticata di quanto spesso ci si immagini.
La sfiducia presuntiva nella tecnologia legislativa non è dovuta solo ad un atteggiamento di superficiale criticismo a priori – che pure esiste ed è estremamente dannoso. Purtroppo infatti l’obiettivo di una norma non è sempre chiaro, o è perfino contraddittorio. Un’applicazione per smartphone può essere efficace o meno, ma il suo scopo è evidente. In una legge invece non è raro che un articolo dica una cosa e quello dopo il suo contrario. O che risolva un problema e ne crei un altro. Per un esempio di attualità vedersi alla voce “decreto dignità”.
Un caso emblematico riguarda la recente legge provinciale sulla democrazia diretta. Si è detto che rappresenta un compromesso e che permangono alcuni dubbi. Vero. Non si è però sottolineato che si tratta di un ‘perfezionamento’ di normative già esistenti, che tiene conto (magari male, ma lo fa) dell’applicazione (e dei limiti) della normativa precedente. Tra le innovazioni c’è la contestata disposizione in base alla quale una legge provinciale (tranne le più sensibili) approvata senza la maggioranza qualificata dei due terzi può essere sottoposta a referendum confermativo. La richiesta può venire da un terzo dei consiglieri provinciali o da almeno 300 elettori entro 20 giorni dall’approvazione. In tal caso la legge è sospesa in attesa del referendum.