Un problema europeo?

Rotta balcanica, sospensione di Schengen, emergenza rifugiati: riflessione sui confini d’Europa e su domande mal poste. Un occasional paper. 

(pubblicato sul sito dell’Osservatorio Balcani e Caucaso (www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/Un-problema-europeo-171174) il 23 maggio 2016. Quest’occasional paper è stato pubblicato in una sua versione ridotta da La rivista il Mulino il 18 maggio 2016)

L’Europa muore o rinasce… o vivacchia? Il paradosso di Jean Monnet

“L’Europa muore o rinasce a Sarajevo” è il titolo di uno degli ultimi scritti di Alexander Langer, condensato in un documento firmato da molti intellettuali europei e consegnato ai capi di stato e di governo riuniti a Cannes. Era il 26 giugno del 1995 e una settimana dopo Langer si toglieva la vita sulle colline di Firenze. Aveva trovato la sua risposta al dilemma: l’Europa sarebbe morta a Sarajevo. Sarebbe morta non offrendo alla Bosnia la possibilità di aderire all’Unione europea. A distanza di 21 anni il paese non è ancora neppure candidato all’adesione.

L’Europa non è morta, o almeno non è morta allora. Nel decennio immediatamente successivo alla sua mancanza di coraggio di fronte alla crisi balcanica è anzi sembrata animata da una vitalità mai raggiunta in precedenza: il numero di paesi membri è più che raddoppiato, l’area Schengen si è allargata e intensificata, sono arrivati la moneta unica, la Carta dei diritti, il progetto di costituzione, le nuove competenze, la nuova struttura istituzionale. Poi di nuovo il riflusso, la crisi dell’eurozona, cui pure è seguita una nuova (per quanto questionabile) governance economica. Ora la crisi dei migranti, il crescente scetticismo politico, la lenta ma costante erosione delle spinte e delle forze politiche che hanno costruito il progetto europeo. Prime risposte arrivano dalla Commissione, sia rispetto alle richieste di proroga delle misure eccezionali ai confini richieste da sei stati, sia per una revisione del “sistema di Dublino”. La nuova sfida è peraltro già alle porte: il voto britannico sull’uscita dall’Unione.

L’inadeguatezza “dell’Europa”, la complessa architettura istituzionale dell’Unione, l’impossibilità di un duraturo compromesso tra singoli interessi nazionali e interessi europei sono diventati quasi degli slogan. Non per questo sono meno veri, anzi lo diventano ancor di più ogni qual volta vengono ripetuti. Meno ricordata ma non meno problematica è l’innata tensione tra il progetto tecnocratico e la spinta politica alla base del progetto europeo, che potremmo chiamare il paradosso di Jean Monnet: solo focalizzando sui profili tecnici (specie giuridici ed economici, e sul peso della burocrazia) è stato (ed è tuttora) possibile superare gli ostacoli politici al processo di integrazione, ma nel contempo senza uno slancio politico tale processo non può che rimanere esposto a tempeste di ogni tipo e reagire, nella migliore delle ipotesi, in modo troppo lento rispetto a quanto le sfide contemporanee richiedono.

Insomma, più che rinascere o morire di fronte alle crisi, l’Europa tende a vivacchiare, al più elaborando soluzioni parziali e tardive. Ciò accade non tanto per un’altra vulgata pericolosamente banale – quella secondo cui i leader del passato erano bravi e quelli di oggi sono scarsi – quanto per l’inevitabile struttura istituzionale di un’Unione così costruita e per il suo altrettanto inevitabile processo decisionale connaturato a tale struttura. L’impossibilità di funzionare diversamente da come funziona attira comprensibilmente all’Unione europea continue critiche, oltre a stimolare varie proposte per un nuovo slancio politico – ed è interessante che queste ultime (v. tra tante da ultimo https://www.socialeurope.eu/2016/05/need-reinvent-europe/) vengano soprattutto da ex leader politici, che forse rimpiangono l’epoca in cui avrebbero voluto ma non hanno potuto essere più incisivi, o forse più sottilmente si divertono ad alimentare lo stereotipo nostalgico, sperando di essere ricordati in futuro come quelli bravi a confronto degli scarsi di domani.

In definitiva, occorre chiedersi se le aspettative nei confronti “dell’Europa” e delle “soluzioni europee” non siano irrealisticamente elevate, frutto anch’esse del paradosso di Monnet. E non si faccia un migliore servizio all’efficacia delle soluzioni accontentandosi del bene piuttosto che del meglio. Se non altro per non alimentare facili e pericolose illusioni che tutto possa avere una “soluzione”.

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Auf a Glas’l mit Francesco Palermo. Der unfreiwillige Politiker

palermo.barfuss (Interview mit Vera Mair am Tinkhof, erschienen auf http://www.barfuss.it/leute/der-unfreiwillige-politiker am 8. Februar 2016)

Francesco Palermo hat ein Amt und trotzdem eine Meinung: Der Senator über Politik, was am Autonomiestatut überarbeitet gehört und sein zwiegespaltenes Verhältnis zu Social Media.

Francesco Palermo erscheint pünktlich und gut gelaunt zum Interview in der EURAC-Bar in Bozen. Der Senator begrüßt den Kellner, bestellt einen Orangensaft und bringt sich in Position. Der anfängliche Verdacht, dass er seine letzthin eher negativen Erfahrungen mit einigenSüdtiroler Medien auch auf einen selbst projizieren könnte, lässt sich zumindest zu Beginn des Gesprächs durch seine entspannte Haltung nicht bekräftigen.

Palermo gilt als intellektuell – ein Attribut, das in der Politik nicht nur positiv behaftet, für seine anderen Tätigkeiten allerdings unabdingbar ist: Leiter des Instituts für Föderalismus- und Regionalismusforschung der EURAC, Lehrstuhl an der Universität in Verona in vergleichendem Verfassungsrecht, ehemaliger Berater für den Europarat und die OSZE. Einfache Parolen sind seine Sache deshalb nicht. Dementsprechend wählt er auch im Gespräch seine Worte mit Bedacht, holt oft lange sprachlichen und argumentativen Anlauf, bis er die Hürde der Antwort endgültig nimmt.

Herr Senator Palermo, laut Ihrem Lebenslauf sprechen Sie neben Deutsch, Italienisch und Englisch noch Spanisch, etwas Französisch und besitzen Grundkenntnisse in Serbokroatisch und Niederländisch. Sind Sprachen essentiell, um eine Kultur zu verstehen?
Sprache ist dazu sicherlich nicht das einzige Mittel, aber eine wichtige Voraussetzung. Mir hätte es auch gut gefallen, Sprachwissenschaftler zu werden. Als ich hier an der EURAC begonnen habe, habe ich auch im Bereich der Rechtsterminologie geforscht. Insgesamt interessiert mich das schon. Und gerade auch in der Rechtsvergleichung sind Sprachen besonders wichtig.

Auch in Ihrem Blog betonen Sie die Wichtigkeit von Sprache. Sie schrieben Artikel zu der von Ihnen so genannten „responsabilità delle parole“ und über das missverständliche Vokabular, das in der Politik gern verwendet wird.  
Das muss man aber differenzieren, denn dabei handelt es sich um zwei verschiedenen Ebenen: Einerseits haben wir als Politiker Verantwortung für die von uns verwendeten Worte. Diese sind oft so schlecht, weil sie Ergebnis eines Kompromisses sind. Ein interessantes Beispiel dazu wird uns nun bald mit dem Gesetz zur Anerkennung der gleichgeschlechtlichen Paare begegnen. Da tauchen auch sicher wieder ein paar Begriffe auf, die der Rechtsordnung bislang total fremd sind, wie etwa „affido rafforzato“ – was soll das heißen? Das ist nicht klar. Der Grund dafür liegt im politischen Prozess, weil die Politik – und das ist auch gut so – immer den Kompromiss sucht und auch suchen soll. Das ist das eine.
Dann gibt es die zweite Ebene, und die ist noch schlimmer, glaube ich. Wenn wir über die Verantwortung für die verwendeten Worte sprechen, liegen wir im Bereich der politischen Kommunikation. Und da sind wir momentan auf einem miserablen Niveau. Denken Sie einfach mal an die Social Media: Die Sprache und Aggressivität, die da oft dahintersteckt, ist ja absolut unerträglich. Daher versuche ich in meinem öffentlichen Leben zum Beispiel nie über Personen zu reden, denn es geht nicht um eine persönliche Konfrontation, sondern um Themen. Und die Wortwahl muss dabei immer vorsichtig sein – auch wenn ich manchmal etwas aggressiver werden oder eine stärkere Wortwahl verwenden möchte, damit die Botschaft klarer wird. Aber ich bremse das immer, weil ich finde, eine gewisse Grenze der Würde darf in der Sprachwahl nicht überschritten werden.

„Damals, vor drei Jahren, ist eben ein Fenster aufgegangen. Jetzt allerdings bedauere ich das, muss ich sagen. Denn das Leben ist ja wirklich miserabel. Wenn ich zurückkönnte, drei Jahre zurück, würde ich nicht mehr kandidieren.”

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