Sull’Ungheria il rischio boomerang

(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 25 settembre 2018)

Il 12 settembre il Parlamento europeo ha approvato la risoluzione che attiva il procedimento nei confronti dell’Ungheria per accertare se questa abbia compiuto una violazione sistematica dei valori fondativi dell’Unione europea e se persista una minaccia allo Stato di diritto. È un passaggio assai significativo sotto il profilo politico, perché è la prima volta che il Parlamento europeo utilizza questo strumento. Soprattutto, il voto ha provocato una spaccatura all’interno del Partito popolare europeo (PPE), cui appartiene anche Fidesz, il partito del Primo ministro ungherese Orbán. La maggioranza dei parlamentari del PPE ha votato a favore della risoluzione e dunque contro Fidesz, consentendo il raggiungimento dei due terzi dei voti necessari per l’approvazione. È prevalsa dunque, seppur con fatica, la “linea Merkel” sulla “linea Orbán”.

Paradossalmente, però, un voto che vuole essere una reazione d’orgoglio e una dimostrazione di forza del Parlamento europeo contro l’erosione sovranista del ruolo dell’Unione in corso da qualche anno, rischia di trasformarsi in una prova di debolezza.

Innanzitutto le modalità di espressione del voto, e in particolare il computo delle astensioni (28 nel campo del PPE), sono state oggetto di contestazione e potrebbero essere impugnate davanti alla Corte di Giustizia. Un fantastico assist alle torie complottiste non a caso sostenute da Orbán nel suo discorso al parlamento europeo subito prima del voto.

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Il voto del Parlamento europeo sull’Ungheria. Tanto fumo, poco arrosto e troppi deficit strutturali.

(pubblicato sulla Rivista Il Mulino (https://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:4482) il 24 settembre 2018)

Il 12 settembre il Parlamento europeo ha approvato la risoluzione che attiva il procedimento nei confronti dell’Ungheria per accertare la violazione sistematica dei valori fondativi dell’Unione europea e la conseguente persistente minaccia allo Stato di diritto.

Il voto è stato definito “storico” su tutti i principali media europei, e certamente lo è in quanto è il primo che il Parlamento europeo esprime ai sensi dell’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea. Lo è anche per le sue indubbie conseguenze politiche, a partire dalla spaccatura che ha provocato all’interno del Partito popolare europeo (Ppe), cui appartiene anche Fidesz, il partito del Primo ministro ungherese Orbán. Com’è noto, la maggioranza (115) dei 219 parlamentari del Ppe ha votato a favore della risoluzione e dunque contro Fidesz, consentendo il raggiungimento della maggioranza dei due terzi dei voti necessari per l’approvazione (i favorevoli sono stati 448). Tra i voti popolari a favore quelli della Övp del presidente di turno austriaco del Consiglio europeo Kurz, e quello del capogruppo Manfred Weber, possibile Spitzenkandidat dei popolari alle imminenti elezioni europee, che sembra così scegliere la “linea Merkel” anziché la “linea Orbán”. Tra i 57 contrari, i voti degli eurodeputati di Forza Italia, che in pieno spirito europeista hanno adottato una decisione tutta in prospettiva nazionale, per non acuire le distanze dalla Lega, gran sostenitrice di Orbán.

Paradossalmente, però, un voto che vuole significare una reazione d’orgoglio del Parlamento europeo contro l’erosione sovranista del ruolo dell’Unione in corso da qualche anno, rischia di trasformarsi in una prova di debolezza.

Innanzitutto le modalità di espressione del voto, e in particolare il computo delle astensioni (28 nel campo del Ppe), sono state oggetto di contestazione e potrebbero essere impugnate davanti alla Corte di Giustizia. Un fantastico assist alle torie complottiste non a caso sostenute da Orbán nel suo discorso al Parlamento europeo subito prima del voto.

In secondo luogo, la procedura è stata attivata con molto ritardo. Il percorso di creazione di una “democrazia illiberale” (parole di Orbán) è in atto in Ungheria dal 2010, quando Fidesz e il suo leader indiscusso hanno assunto il potere, modificando immediatamente la costituzione (2011) e dedicandosi successivamente allo smantellamento dello stato di diritto. Queste violazioni sono state accertate già da tempo da organismi quali la Commissione di Venezia, e il Parlamento arriva già tardi. Figurarsi se e quando si dovesse esprimere il Consiglio, che è l’organo che ha l’ultima parola in merito.

Terzo, il voto si presta alla facile accusa di esprimere la politica dei doppi standard già da tempo criticata nell’Europa centro-orientale. Perché l’Ungheria sì e altri stati che seguono il medesimo corso come la Polonia invece no, o almeno non ancora? È forse una questione di dimensioni e di peso politico, anche all’interno delle istituzioni europee? L’utilizzo strumentale di questo argomento può facilmente aumentare il vittimismo che in molti Paesi (Italia compresa) si sta diffondendo nei confronti dell’Unione europea, fomentato con piacere da chi il progetto europeo intende sabotare.

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Assuefazione identitaria

(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 9 agosto 2018 con il titolo “Assuefazione e spinta identitaria”)

La spinta nazionalista e identitaria si sta ormai diffondendo a macchia d’olio a livello globale. L’assuefazione collettiva alle quotidiane dichiarazioni di rappresentanti politici più o meno in vista e alla diffusione di media aggressivi soprattutto contro ciò che finora si chiamava il politicamente corretto impedisce di distinguere tra semplici dichiarazioni e precise disposizioni normative. Che quindi passano spesso quasi inosservate, mescolate ai semplici tweet, generando un silenzioso rumore di sottofondo. Silenzioso perché talmente costante da non essere quasi più percepito.

L’ossessione identitaria – che altro non è che l’affermazione del primato di una cultura (presunta omogenea) su altre (presunte omogenee), ed è dunque un sinonimo edulcorato di razzismo – ha recentemente raggiunto il livello normativo più alto, quello costituzionale, in diversi ordinamenti. Due tra i più significativi, Ungheria e Israele, hanno approvato nelle scorse settimane modifiche costituzionali fondamentali, che segnano la torsione identitaria dei rispettivi Paesi in modo assai preoccupante, per le conseguenze interne e per l’effetto imitativo che le modifiche sono destinate a generare.

A fine giugno il Parlamento ungherese ha approvato un emendamento alla costituzione – voluta dalla stessa maggioranza nel 2011 e già fortemente indirizzata in senso identitario. L’emendamento da un lato introduce l’obbligo per tutte le istituzioni di “proteggere l’identità ungherese e la sua cultura cristiana”, e dall’altro rende penalmente perseguibili l’assistenza ai rifugiati e l’assenza di fissa dimora. La disposizione fornisce un’interpretazione propria e alquanto creativa dei valori cristiani. Ma soprattutto completa il percorso di costituzionalizzazione dell’identificazione di religione ed etnia quali fattori di appartenenza alla comunità nazionale. Escludendo di conseguenza chi non soddisfi questi due criteri, ed includendo coloro che invece li soddisfano vivendo all’estero. Sono dunque più ungheresi gli ungheresi della diaspora che i cittadini ungheresi appartenenti a minoranze.

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