Per i diritti servono i giudici?

(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 25 ottobre 2018)

Che a livello mondiale questa non sia la stagione più felice per i diritti è cosa nota. Almeno in via generale, perché nel dettaglio il quadro è più diversificato. I progressi compiuti in alcuni ambiti sono infatti – fortunatamente – significativi. È il caso del graduale superamento della discriminazione basata sull’orientamento sessuale: per quanto vi sia ancora molto da fare, negli ultimi anni si sono registrati passi importanti, che nemmeno i governi più conservatori hanno rimesso in discussione – almeno per ora. Si pensi al riconoscimento del diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso in Spagna, negli Stati Uniti e in Austria, alle più timide unioni civili in Italia, al riconoscimento del terzo genere in Germania, fino alla recentissima depenalizzazione in India prima dell’omosessualità e poi dell’adulterio.

Tutti questi passi sono stati compiuti direttamente o indirettamente in via giudiziaria. Direttamente, quando le corti costituzionali o supreme hanno riconosciuto l’illegittimità della mancata previsione di un diritto (ad esempio al matrimonio o al riconoscimento di un’identità sessuale diversa dal maschile o femminile) o la evidente violazione del principio di uguaglianza (ed esempio in caso di criminalizzazione dell’omosessualità). Indirettamente quando le decisioni del legislatore sono frutto di “richiami” da parte delle Corti, nazionali o internazionali, come accaduto in Italia con l’approvazione della legge sulle unioni civili. In India il famigerato articolo 377 del codice penale, che puniva “i rapporti sessuali contro natura”, era diventato un simbolo delle rivendicazioni di settori sempre più ampi di società. La richiesta della sua abolizione era da tempo nell’agenda politica, non soltanto da parte degli attivisti dei diritti LGBTI, ma anche da parte di ampi settori nazionalisti, che magari ne approvavano il contenuto, ma ne sottolineavano l’origine vittoriana e coloniale. Ciò nonostante il Parlamento ha tergiversato per anni, ed è dovuta intervenire la Corte suprema per compiere un passo storico non solo per l’India ma per un’intera regione del mondo.

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Auf a Glas’l mit Francesco Palermo. Der unfreiwillige Politiker

palermo.barfuss (Interview mit Vera Mair am Tinkhof, erschienen auf http://www.barfuss.it/leute/der-unfreiwillige-politiker am 8. Februar 2016)

Francesco Palermo hat ein Amt und trotzdem eine Meinung: Der Senator über Politik, was am Autonomiestatut überarbeitet gehört und sein zwiegespaltenes Verhältnis zu Social Media.

Francesco Palermo erscheint pünktlich und gut gelaunt zum Interview in der EURAC-Bar in Bozen. Der Senator begrüßt den Kellner, bestellt einen Orangensaft und bringt sich in Position. Der anfängliche Verdacht, dass er seine letzthin eher negativen Erfahrungen mit einigenSüdtiroler Medien auch auf einen selbst projizieren könnte, lässt sich zumindest zu Beginn des Gesprächs durch seine entspannte Haltung nicht bekräftigen.

Palermo gilt als intellektuell – ein Attribut, das in der Politik nicht nur positiv behaftet, für seine anderen Tätigkeiten allerdings unabdingbar ist: Leiter des Instituts für Föderalismus- und Regionalismusforschung der EURAC, Lehrstuhl an der Universität in Verona in vergleichendem Verfassungsrecht, ehemaliger Berater für den Europarat und die OSZE. Einfache Parolen sind seine Sache deshalb nicht. Dementsprechend wählt er auch im Gespräch seine Worte mit Bedacht, holt oft lange sprachlichen und argumentativen Anlauf, bis er die Hürde der Antwort endgültig nimmt.

Herr Senator Palermo, laut Ihrem Lebenslauf sprechen Sie neben Deutsch, Italienisch und Englisch noch Spanisch, etwas Französisch und besitzen Grundkenntnisse in Serbokroatisch und Niederländisch. Sind Sprachen essentiell, um eine Kultur zu verstehen?
Sprache ist dazu sicherlich nicht das einzige Mittel, aber eine wichtige Voraussetzung. Mir hätte es auch gut gefallen, Sprachwissenschaftler zu werden. Als ich hier an der EURAC begonnen habe, habe ich auch im Bereich der Rechtsterminologie geforscht. Insgesamt interessiert mich das schon. Und gerade auch in der Rechtsvergleichung sind Sprachen besonders wichtig.

Auch in Ihrem Blog betonen Sie die Wichtigkeit von Sprache. Sie schrieben Artikel zu der von Ihnen so genannten „responsabilità delle parole“ und über das missverständliche Vokabular, das in der Politik gern verwendet wird.  
Das muss man aber differenzieren, denn dabei handelt es sich um zwei verschiedenen Ebenen: Einerseits haben wir als Politiker Verantwortung für die von uns verwendeten Worte. Diese sind oft so schlecht, weil sie Ergebnis eines Kompromisses sind. Ein interessantes Beispiel dazu wird uns nun bald mit dem Gesetz zur Anerkennung der gleichgeschlechtlichen Paare begegnen. Da tauchen auch sicher wieder ein paar Begriffe auf, die der Rechtsordnung bislang total fremd sind, wie etwa „affido rafforzato“ – was soll das heißen? Das ist nicht klar. Der Grund dafür liegt im politischen Prozess, weil die Politik – und das ist auch gut so – immer den Kompromiss sucht und auch suchen soll. Das ist das eine.
Dann gibt es die zweite Ebene, und die ist noch schlimmer, glaube ich. Wenn wir über die Verantwortung für die verwendeten Worte sprechen, liegen wir im Bereich der politischen Kommunikation. Und da sind wir momentan auf einem miserablen Niveau. Denken Sie einfach mal an die Social Media: Die Sprache und Aggressivität, die da oft dahintersteckt, ist ja absolut unerträglich. Daher versuche ich in meinem öffentlichen Leben zum Beispiel nie über Personen zu reden, denn es geht nicht um eine persönliche Konfrontation, sondern um Themen. Und die Wortwahl muss dabei immer vorsichtig sein – auch wenn ich manchmal etwas aggressiver werden oder eine stärkere Wortwahl verwenden möchte, damit die Botschaft klarer wird. Aber ich bremse das immer, weil ich finde, eine gewisse Grenze der Würde darf in der Sprachwahl nicht überschritten werden.

„Damals, vor drei Jahren, ist eben ein Fenster aufgegangen. Jetzt allerdings bedauere ich das, muss ich sagen. Denn das Leben ist ja wirklich miserabel. Wenn ich zurückkönnte, drei Jahre zurück, würde ich nicht mehr kandidieren.”

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L’ipocrisia linguistica sulle unioni civili gay

michele-ainis(articolo di Michele Ainis pubblicato sul Corriere della Sera del 20 gennaio 2016, e su www.corriere.it/opinioni/16_gennaio_20/ipocrisia-linguistica-unioni-civili-gay-ba10f56c-bf3b-11e5-b186-10a49a435f1d.shtml)

Sia i favorevoli sia i contrari si nascondono dietro parole inglesi (stepchild adoption) o strani giri di parole oscure. Matrimonio non si può dire? Chiamiamolo «gaytrimonio»

Tutto gira intorno a una parola: matrimonio, guai a chi lo bestemmia.

Sicché l’ultima trincea contro il didielle Cirinnà bis (uno scioglilingua) sta nell’uso della lingua. Vietato riferirsi alle nozze fra uno sposo e una sposina nella nuova legge sulle unioni omosessuali, vietato ogni rinvio alla disciplina che il codice civile ritaglia per i coniugi. Non si può: sarebbe incostituzionale, anzi immorale, anzi criminale. E infatti stuoli d’imbianchini sono già all’opera per cancellare quelle scritte che feriscono l’iride del nostro Parlamento. Domanda: ma se è un tabù l’analogia coi matrimoni, a cosa dovrebbe rimandare questa legge, ai funerali?

Eppure non vi risuona uno stile troppo esplicito e diretto, non si direbbe insomma che quei 23 articoli escano dalla penna di Tacito. Semmai di Gadda, o di Céline, campioni del funambolismo letterario. Difatti la famiglia gay viene immediatamente definita (articolo 1) come «specifica formazione sociale». Ma da quale specie si è specializzata questa speciale formazione? Non dalla specie umana, dal momento che la legge non menziona l’uomo, né la donna, né il papà o la mamma. No, in questo caso ciascun nubendo è «parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso». Appellativo chilometrico, come i titoli d’un nobile spagnolo; però in linea con la nostra tradizione, quando le leggi italiane sono costrette a misurarsi con le gioie del sesso.

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