Toponomastica: perché e come uscirne

topo-no-mastica(versione integrale dell’articolo pubblicato con qualche taglio sul quotidiano Alto Adige dell’8 febbraio 2017 con il titolo “Caso toponimi:perché e come uscirne)

Una delle ragioni per cui la questione della toponomastica non è ancora stata risolta è che va a toccare molti nervi scoperti della convivenza, e dei non detti finora non emersi perché troppo delicati. È un po’ il ritratto di Dorian Gray della nostra società divisa, dove si accumulano tutti i peccati e tutte le crepe del sistema. Il punto non sono i singoli nomi ma una Weltanschauung, collegata alla visione che si ha del territorio che si abita, della sua storia, della ‘cittadinanza sociale’ di chi ci vive, e dell’immagine che si intende trasmettere a chi non ci vive. È insomma un dettaglio tremendamente importante. E rischia di essere il vaso di Pandora di frustrazioni represse.

Il tema e la sua ‘narrazione’ sono indicativi di una società separata, che impedisce di conoscere e di ri-conoscere la percezione dell’altro. Per cui si rischia di girare a vuoto, arrovellandosi sul perché ciò che appare un’ovvietà non venga compreso dalla controparte. Chi si rifiuta di vedere l’ovvio non può che essere cattivo e in malafede. Nello specifico: nella percezione ‘italiana’ risulta incomprensibile perché da parte tedesca si voglia negare a qualcuno il diritto di chiamare i luoghi nella propria lingua, perché si voglia togliere anziché aggiungere, perché non ci si renda conto che la convivenza richiede accettazione, anche simbolica. Da parte ‘tedesca’ non si comprende perché gli italiani debbano far transitare la propria identità attraverso un torto storico, perché ci si lamenti sempre senza conoscere la realtà extraurbana (dove il monolinguismo è un dato di fatto), perché si sia così incapaci di veicolare unitariamente interessi comuni, e perché si finga di credere che il bilinguismo esista anche a fronte di una strisciante pulizia linguistica in atto da tempo. Che avviene in assenza, non in presenza di una norma di attuazione.

E ciò anche tralasciando le posizioni di nazionalismo estremo che pure ci sono o i calcoli elettorali che pure si fanno, per cui conviene far passare gli uni da fascisti e gli altri da razzisti, così certo complicando di molto la cosa, perché i compromessi avvengono non grazie, ma nonostante le posizioni estremistiche e la loro facile rendita propagandistica. Per capire la reale difficoltà di una soluzione occorre infatti guardare non tanto agli imprenditori dello scontro etnico, quanto al cittadino comune, che non ha interessi specifici da difendere o affermare, né una posizione politica predeterminata, e che in perfetta buona fede non capisce come si faccia a non capire. Non comprendendo questo, tutto ciò che viene dall’altra parte è male, cercare punti di mediazione è un tradimento, e tutto va letto nella logica vittoria-sconfitta, per cui se si ‘cede’ ha vinto ‘l’altro’, vedendo ovviamente solo le proprie concessioni e mai quelle altrui.

È la dinamica tipica di ogni conflitto etnico, funziona così in ogni parte del mondo, e la soluzione è sempre la stessa. Costruire ponti, venirsi incontro, superare la sordità del parallelismo narrativo. Spesso in altre parti del mondo questo ruolo lo svolgono le organizzazioni internazionali, che sono (o dovrebbero essere) terze e comunque in grado di guardare il problema non da una sola prospettiva. Qui da noi il paradigma della generosità è stato magistralmente declinato da Alexander Langer (non a caso il più incompreso su entrambi i fronti, perché scomodo per entrambe le narrazioni) che ha sempre predicato un principio elementare nella sua dirompente forza rivoluzionaria: fare sempre un passo in più verso l’altro. Tanto più quando appare arcigno e male intenzionato; e in una società divisa non può che apparire tale. La profezia dunque si auto-avvera.

Come si declina in concreto tutto questo nella piccola vicenda della toponomastica nel piccolo Alto Adige? Facendo un passo alla volta e andandosi incontro. Occorre ad esempio ribadire con forza che parlare di singoli nomi e di liste non ha senso prima di aver definito il quadro generale, ossia di aver superato le diffidenze. Perché altrimenti le reazioni sono prevedibili. Ogni toponimo avrà un significato per qualcuno e l’eventualità di toglierlo o lasciarlo è un oltraggio inaccettabile alla propria identità, o al semplice buon senso. Not in my backyard: non ci impuntiamo sui nomi, non sia mai, purché però non siano proprio quelli… O ancora: limitiamoci a criteri astratti che impediscano di compiere qualsiasi passo, con ciò imponendo una visione (magari pienamente condivisibile) rispetto all’altra e bloccando tutto. Spesso queste obiezioni vengono avanzate in buona fede, ed è normale che sia così dopo decenni di società separate, scuole separate, associazioni separate, residenze separate, economie separate. Se ora ci si sta avvicinando è forse perché siamo un po’ meno separati di un tempo.

Nelle guerre di trincea chi si alza prima rischia di morire, ma se nessuno inizia ad alzarsi la guerra non finisce. I compromessi scontentano sempre, all’inizio. A partire da coloro che li negoziano. Ma solo sforzandosi di comprendere le ragioni dell’altro (e talvolta serve uno sforzo molto grande, quando appaiono incomprensibili), si può uscire dalle secche ed evitare la spirale dei nazionalismi.

La vicenda della toponomastica può essere un’occasione di straordinario progresso della convivenza, attraverso il metodo delle concessioni reciproche, della generosità e della fiducia. Oppure può essere la dimostrazione che hanno vinto la società separata, l’incomunicabilità, la diffidenza. Ricordiamoci del referendum su Piazza Vittoria, che ha seguito dinamiche molto simili. E chiediamoci chi ci guadagna con il fallimento di un accordo. Come ricordava sempre il compianto Pannella, ci sono momenti nella storia in cui occorre essere impopolari per non essere antipopolari.

 

p.s. se qualcuno leggendo questo articolo ha pensato che sia in atto un tentativo di svendere l’identità, calare le braghe, cedere senza ottenere nulla in cambio, ecc., lo rilegga. Se dopo averlo riletto continua a pensarlo vorrà dire che è scritto male, e me ne scuso… Oppure che non c’è speranza e lo sviluppo parallelo della società (anzi, delle società) è andato troppo avanti.

 

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