Passi verso l’inclusione

Il Consiglio di amministrazione dell’Università di Trento ha approvato il nuovo regolamento generale di Ateneo, scritto per la prima volta usando il “femminile sovraesteso” per le cariche e per tutti i riferimenti di genere. È esattamente la stessa cosa che si è tradizionalmente fatta (e che tuttora troppo spesso avviene) con il maschile, usato come declinazione unica per indicare uomini e donne. Solo che è ribaltata. Si parla quindi solo di rettrice, professoresse, decane, direttici, ecc. Stabilendo fin dall’art. 1 che “i termini femminili usati in questo testo si riferiscono a tutte le persone”.

Si tratta di un fondamentale cambio di prospettiva, del bulldozer che a volte serve per abbattere pareti altrimenti inscalfibili. Di un indispensabile strumento di rottura, passato il quale si può iniziare la ricostruzione.

Ovviamente l’uso di un solo genere non può mai essere inclusivo, ed è quindi sbagliato. È sbagliato declinare tutto al femminile, ma solo così i maschi possono percepire realmente il senso di esclusione che le donne provano da sempre. Solo così si può creare consapevolezza di un problema, che non può essere derubricato a “non problema” da parte di chi non lo ritiene tale. Fosse anche la maggioranza (verosimilmente la maggioranza degli uomini ma anche una significativa parte di donne). Perché in tema di diritti il criterio di decisione non può mai essere la maggioranza. I diritti sono minoritari per eccellenza, sono il luogo in cui si decide diversamente, dove contano gli argomenti e non i numeri, dove la forza del diritto si impone sul diritto della forza.

L’eccezione o, se si vuole, la provocazione – ma non è corretto definirla tale, perché è un ben più significativo cambio di paradigma – è fatta per scardinare la regola precedente. Una regola che, come in diversi altri settori, è una regola implicita, consuetudinaria, e per questo più difficile da modificare. Si pensi all’infinita vicenda del cognome dei figli, che in Italia è stato finora automaticamente quello paterno non in forza di una norma positiva ma di una consuetudine, di un’interpretazione, di una regolarità che si è fatta regola e di una normalità che si è fatta norma. Ci sono voluti interventi plurimi della Corte costituzionale per abbattere questo muro, che in parte è ancora in piedi.

Ovviamente l’eccezione non può essa stessa diventare regola, e quindi deve rappresentare un regime transitorio, in vigore per il tempo necessario a creare nella società la consapevolezza della nuova regola della reale parità. Una consapevolezza che passa anche dall’abitudine linguistica: ci saremo arrivati quando smetteremo di pensare che “dottoressa” va bene, ma “medica” suona male. Quando questa consapevolezza ci sarà, diventerà inevitabile usare un linguaggio inclusivo, che tenga conto allo stesso modo e con la stessa dignità del maschile e del femminile. E saremo una società più giusta. Insomma, è un passo importante e non solo simbolico, e dà un segnale fondamentale proprio in un momento in cui sulla tolleranza si sta arretrando. Anche in ambito linguistico: la Baviera ha appena abolito il linguaggio inclusivo.

Nell’auspicare l’estensione del precedente dell’Ateneo trentino a molti altri testi di carattere ufficiale, occorre anche portare a livello sistemico le considerazioni appena svolte in tema di genere. Per quanto con eccessivo e colpevole ritardo e con eccessiva e colpevole lentezza, negli ultimi anni, fortunatamente, l’attenzione ai diritti delle donne e al loro ruolo nella società è finalmente cresciuta. La strada sembra tracciata, ed anche per questo è fondamentale non abbassare la guardia, perché la completa parità non è certo ancora raggiunta.

Nel contempo, sarebbe errato fermarsi qui e vedere solo i diritti delle donne come conquista di civiltà. Molti altri sono i fattori di diversità, gli ingredienti di pluralismo che sono necessari per una società realmente inclusiva. Stiamo finalmente capendo che le “minoranze” (intese come gruppi portatori del fondamentale seme della diversità) non sono solo quelle etno-linguistiche o religiose (su queste ultime, peraltro, il lavoro da fare è molto e complesso), ma anche quelle di genere. E che il genere non è solo binario (uomo-donna) ma anch’esso plurale. È fondamentale che questo percorso non si interrompa e che continui ad includere altri fattori di diversità. Se nella ristretta cerchia dei privilegiati entrano anche le donne (ed è non solo un bene, ma una necessità impellente) ma poi il portone si chiude in faccia a tutti gli altri come finora è stato fatto anche verso le donne, il passo sarà stato troppo corto.

Un passo in avanti non può restare solo un passo, altrimenti lo spostamento resta minimo. Occorre iniziare invece un cammino, certo non semplice, certo graduale, ma costante, verso una società pienamente inclusiva. Una società dei diritti di tutti, non dei privilegi di pochi.

La lezione di un referendum

Nouvelle Calédonie

(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 19 dicembre 2021 con il titolo “La lezione di quattro referendum”)

La Nuova Caledonia è uno dei luoghi più distanti dall’Europa. È una collettività francese d’oltremare, retaggio del passato coloniale, in cui da almeno una quarantina d’anni si discute dell’eventualità e dei modi di una possibile indipendenza. Comprensibile a partire dalla distanza dalla madrepatria, circa 17.000 chilometri, e dalla radicale diversità culturale della popolazione locale rispetto ai discendenti degli ex coloni francesi. Certo, ci sono anche molti aspetti che inducono alla prudenza rispetto a una separazione dalla Francia, come la sopravvivenza economica di una collettività ampiamente sussidiata da Parigi, che difficilmente, con i suoi 270.000 abitanti, potrebbe evitare di essere inglobata dall’espansionismo cinese nel Pacifico.

Cosa c’è di interessante a parte il lato esotico? C’è che la scorsa settimana si è tenuto il quarto referendum sull’indipendenza dalla Francia. E già questo è particolare, perché normalmente i referendum indipendentisti non si ripetono, almeno non spesso, e non tante volte (il Québec ne ha svolti due, vedremo se ne sarà concesso un altro alla Scozia). Quattro perché dopo il primo, nel 1987 e stravinto dai contrari all’indipendenza, si è deciso di guidare il processo attraverso il diritto, per evitare che una decisione così importante fosse presa da maggioranze occasionali, o sulla scorta di emozioni momentanee. Con un apposito accordo tra il governo francese e le autorità locali siglato nel 1988 (e approvato in un referendum) si è prevista la legittimità dell’indipendenza dell’isola, attraverso un lungo percorso in più tappe, durate oltre quattro decenni. Nel 1998 fu attribuita alla Nuova Caledonia e alla sua popolazione originaria una maggiore autonomia, da sperimentare per un periodo ventennale. Al termine, la popolazione della collettività d’oltremare avrebbe potuto esercitare il diritto di autodeterminazione attraverso votazioni referendarie. Non una, ma tre, ad intervalli biennali. Così il primo referendum si è tenuto nel 2018, il secondo nel 2020 e il terzo alcuni giorni fa. Sarebbe bastato conseguire la maggioranza in uno solo dei tre referenda per far scattare un ulteriore processo negoziale che avrebbe condotto all’indipendenza dell’isola.

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Cosa cela lo scontro sul DDL contro l’omotransfobia

(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 13 luglio 2021 con il titolo “Cosa cela lo scontro sul DDL Zan”)

Dunque si andrà alla conta in Senato sul disegno di legge per il contrasto all’omotransfobia. Sul piano politico è un fallimento, perché quando la politica non riesce a mediare viene meno ad una delle sue funzioni primarie. Sul piano sociale, per contro, è un’opportunità importante per aiutare la società a guardarsi dentro e a riflettere su cosa intende essere.

Sul piano giuridico si tratta di una norma banale, elementare, costituzionalmente dovuta. Aggiunge semplicemente alle già presenti circostanze aggravanti dei reati commessi con finalità di discriminazione (odio etnico, nazionale, razziale o religioso) i motivi fondati “sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”. A meno di non voler ritenere legittimo questo tipo di discriminazioni, è evidente che per combatterle occorrono misure speciali, e non basta il fatto che aggressioni violente siano già punite indipendentemente dalla motivazione. È l’ABC del diritto delle minoranze.

Le contestazioni che vengono avanzate sono giuridicamente risibili. La prima riguarda la libertà di manifestazione del pensiero. Al di là del fatto che invocare la libertà di pensare in modo discriminatorio non fa particolare onore, la norma non limita affatto tale libertà, ma punisce solo le azioni criminali e l’istigazione a compierle, come emerge dall’art. 4. In pratica se con un mio amico mi lascio andare a battute sessiste in un bar farò i conti con la mia dignità personale, ma non con la legge. Se invece le scrivo in un articolo sul giornale e poi qualcuno compie atti violenti perché ispirato dalle mie idee potrei essere corresponsabile. Esattamente come già avviene per i reati di odio razziale, etnico o religioso. Vogliamo ritenere che la discriminazione fondata su sesso, identità di genere o disabilità sia meno grave? Continue reading

Rischi e opportunità per la nuova paritetica

(pubblicato sul quotidiano Alto Adige dell’8 luglio 2021 con il titolo “La nuova stagione di Calderoli”)

L’attuale legislatura non è stata finora produttiva per le commissioni paritetiche. Fatti e disfatti ad ogni cambio di governo, questi fondamentali istituti di sviluppo dell’autonomia hanno pagato il prezzo dell’instabilità politica, che sta alla loro efficacia come la criptonite sta a Superman. Nonostante la continuità sul versante delle nomine provinciali e regionali, i continui cambi della componente governativa hanno rallentato i lavori al punto di impedire l’approvazione di ogni provvedimento.

Le recenti nomine da parte della Ministra Gelmini sono state criticate per non avere tenuto conto dell’eterogeneità della maggioranza che sostiene il governo Draghi, né della dimensione di genere. Per contro, non è difficile scorgere dietro alla nuova composizione un chiaro disegno politico, volto a fare dell’organo lo specchio dell’accordo SVP-Lega che governa la Provincia. Nell’auspicio, peraltro comprensibile, di poter così finalmente procedere all’approvazione di alcune norme di attuazione in quest’ultima fase della legislatura. In questa logica si colloca anche la proposta di affidare la presidenza della commissione dei sei al sen. Calderoli, garante di tale accordo politico. Va ricordato infatti che, senza un solido sostegno politico del governo, norme di attuazione non se ne fanno, come dimostrano i lunghi periodi di stagnazione tra il 2007 e il 2010, o dal 2018 ad oggi. Per contro, quando i rapporti politici sono buoni, se ne producono molte, come nelle stagioni da record con oltre 20 norme tra il 1996 e il 2001 e altrettante tra il 2014 e il 2018.

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La grazia e il peso della generosità

(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 12 giugno 2021 con il titolo “Grazia, la via della generosità”)

La visita romana del Presidente austriaco Van der Bellen ha riportato d’attualità la questione della grazia ai tre superstiti condannati in via definitiva per gli attentati degli anni ’60 in Alto Adige – già il termine da usare per indicarli è controverso e mai neutrale, che si dica attivisti, combattenti per la libertà, bombaroli, terroristi.

Su queste colonne il tema è stato ottimamente affrontato da Paolo Mantovan, che dopo avere ricostruito le diverse vicende legate ai tre interessati, ritiene che la grazia possa forse essere concessa a chi l’ha chiesta per ragioni di salute, ma non certo a chi non abbia mai manifestato alcun pentimento ed abbia anzi rivendicato la correttezza delle scelte, almeno in quel periodo storico.

Va ricordato che la grazia è un potere essenzialmente presidenziale, nel quale il ruolo del governo è assai ridotto, come la Corte costituzionale ha avuto modo di specificare nel 2006 in occasione del caso Bompressi: la Corte accolse il ricorso del Presidente della Repubblica, che intendeva concedere la grazia, contro il Ministro della Giustizia, che rifiutava di controfirmare l’atto, dichiarando che il Ministro non può impedire la prosecuzione del procedimento opponendo una propria volontà a quella presidenziale. Continue reading

La guerra delle parole

(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 2 aprile 2021)

“Siamo in guerra e servono norme di guerra”. Così il capo del Dipartimento della Protezione civile, Fabrizio Curcio, ha espresso la delicatezza del momento e la necessità di accelerare il piano vaccinale. Concetti sacrosanti espressi con parole molto pericolose.

Pericolose in primo luogo perché le “norme di guerra” non esistono. La guerra è la negazione del diritto. Che prova a disciplinare alcuni aspetti del momento bellico, come con il purtroppo sempre disatteso diritto internazionale umanitario e con le norme penali per i militari (in Italia il codice penale militare di guerra), ma ci riesce fino ad un certo punto. Perché è un fenomeno razionale, che si ferma di fronte all’irrazionalità della forza che prevale in guerra. La forza del diritto è l’opposto del diritto della forza. Per questo il diritto è lo strumento di pace per eccellenza: il diritto sono le catene di Ulisse, lo strumento con cui si lega all’albero della nave per non cadere nella trappola delle sirene. È ciò che di meglio l’uomo ha a disposizione nei momenti di lucidità per prevenire errori nei momenti di panico. Come ricordato già da Cicerone, invece, quando si usano le armi tacciono le leggi (silent enim leges inter arma). Invocare “norme da guerra” significa evocare un non-diritto, un arbitrio in cui è lecito tutto ciò che è funzionale alla ragion di stato, all’obiettivo del momento. In questo caso il fondamentale contrasto alla pandemia.

È evidente che una situazione di emergenza richieda norme particolari e straordinarie, adatte al momento. Ma è pericoloso quando non vi siano regole che sovrintendano alla produzione di queste regole. Chi stabilisce cosa sia necessario per contrastare l’emergenza? Il governo? Il Dipartimento per la Protezione civile? Il Commissario per l’emergenza Covid? E come lo stabilisce? Con decreti? Con la forza normativa del fatto, secondo la nota espressione di Georg Jellinek? Basta un decreto del Presidente del Consiglio per superare il riparto di competenze tra Stato e Regioni garantito dalla costituzione? Evidentemente sì, come in qualche modo ci ha ricordato la Corte costituzionale. Intendiamoci: può essere la soluzione migliore. Ma non è mai “giusta” se non adottata nell’ambito di un quadro predeterminato dal diritto. Semplificando, è come cambiare le regole del gioco a partita in corso perché succede qualcosa che il regolamento non aveva previsto.

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