La memoria selettiva

(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 29 gennaio 2021)

L’ultimo atto del governo prima delle dimissioni è stata l’approvazione del decreto legge sull’organizzazione e il funzionamento del Comitato olimpico nazionale italiano (CONI). Si è trattato di un intervento volto a porre rimedio alla violazione della Carta Olimpica, che prevede l’autonomia dei comitati olimpici nazionali dai rispettivi governi in ambito decisionale e organizzativo. In assenza di questo intervento, tra pochi giorni il CONI sarebbe stato sospeso dal Comitato olimpico internazionale con diverse pesanti conseguenze, tra cui l’impossibilità per gli atleti italiani di gareggiare alle prossime olimpiadi sotto la bandiera nazionale. Solita soluzione “in zona Cesarini”, verrebbe da dire in gergo sportivo, o “all’italiana” nel linguaggio politico o, con toni macabri ma realistici, in limine mortis, anche dello stesso governo. Figuraccia mondiale evitata in extremis e malcelato quanto ingiustificato orgoglio nazionale perché alla fine, quando tutto sembra perduto, il genio italico se la cava sempre. Dimenticando che, specie in termini di immagine, non conta solo il risultato ma anche il percorso per arrivarci.

È certamente casuale che il decreto sia stato approvato in concomitanza con la giornata della memoria, che celebra la fine dell’Olocausto e ricorda la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione dei cittadini ebrei e di coloro che hanno subito la deportazione. Ma la coincidenza temporale fa emergere lo stridente contrasto tra gli obblighi a cui si adempie e quelli che vengono bellamente ignorati.

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Per i diritti servono i giudici?

(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 25 ottobre 2018)

Che a livello mondiale questa non sia la stagione più felice per i diritti è cosa nota. Almeno in via generale, perché nel dettaglio il quadro è più diversificato. I progressi compiuti in alcuni ambiti sono infatti – fortunatamente – significativi. È il caso del graduale superamento della discriminazione basata sull’orientamento sessuale: per quanto vi sia ancora molto da fare, negli ultimi anni si sono registrati passi importanti, che nemmeno i governi più conservatori hanno rimesso in discussione – almeno per ora. Si pensi al riconoscimento del diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso in Spagna, negli Stati Uniti e in Austria, alle più timide unioni civili in Italia, al riconoscimento del terzo genere in Germania, fino alla recentissima depenalizzazione in India prima dell’omosessualità e poi dell’adulterio.

Tutti questi passi sono stati compiuti direttamente o indirettamente in via giudiziaria. Direttamente, quando le corti costituzionali o supreme hanno riconosciuto l’illegittimità della mancata previsione di un diritto (ad esempio al matrimonio o al riconoscimento di un’identità sessuale diversa dal maschile o femminile) o la evidente violazione del principio di uguaglianza (ed esempio in caso di criminalizzazione dell’omosessualità). Indirettamente quando le decisioni del legislatore sono frutto di “richiami” da parte delle Corti, nazionali o internazionali, come accaduto in Italia con l’approvazione della legge sulle unioni civili. In India il famigerato articolo 377 del codice penale, che puniva “i rapporti sessuali contro natura”, era diventato un simbolo delle rivendicazioni di settori sempre più ampi di società. La richiesta della sua abolizione era da tempo nell’agenda politica, non soltanto da parte degli attivisti dei diritti LGBTI, ma anche da parte di ampi settori nazionalisti, che magari ne approvavano il contenuto, ma ne sottolineavano l’origine vittoriana e coloniale. Ciò nonostante il Parlamento ha tergiversato per anni, ed è dovuta intervenire la Corte suprema per compiere un passo storico non solo per l’India ma per un’intera regione del mondo.

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Parlamento: grazie ma non mi ricandido

La prospettiva di candidare per un nuovo mandato in Parlamento mi lusinga e mi onora. Significa che persone che stimo ritengono che abbia svolto bene il difficile compito in questa legislatura. Per questo, nonostante fin dal primo giorno mi fosse chiaro che si sarebbe trattato di un’esperienza non ripetibile, ci ho pensato molto.

Tuttavia ci sono troppe ragioni di ordine personale, professionale e anche politico che mi inducono a non ripresentarmi. Tralascio le prime, pur importanti, perché relative alla sfera privata. Sul piano professionale, rappresentare i cittadini è l’onore più grande, e sono felice di averne avuto la possibilità. È stata anche un’occasione straordinaria per conoscere le persone, la società e le istituzioni. Non è solo un completamento essenziale per uno studioso di queste materie, ma anche una lezione di vita. Fa capire anche con quanta superficialitá si giudichino le scelte di interesse collettivo, e quanto ciò renda difficile trovare le motivazioni necessarie per un incarico così importante, che viene però svolto con modalità, linguaggi e liturgie che non mi appartengono.

Sul piano politico la scelta di rimanere sempre indipendente ha un prezzo. Soprattutto quello di poter usare solo le armi dell’esempio e dell’argomentazione in un contesto dominato dal consenso. È stata una legislatura in cui si è ottenuto molto nei settori che più ho seguito, l’autonomia e i diritti, anche se gran parte del merito si deve alle condizioni complessive. In scienza e coscienza ho dato il mio contributo, spesso ho sofferto per essermi dovuto accontentare di soluzioni non del tutto (e talvolta quasi per nulla) corrispondenti alle mie idee, ripetendomi che non accettare le ragioni di altri e il compromesso con queste è una comoda forma di arroganza. Senza mediazione non esiste la politica, ma la mediazione diventa frustrante quando è basata non sulla ponderazione degli argomenti ma sui rapporti di forza.

Rispetto al messaggio politico e sociale del mio mandato, in fondo è bastata l’elezione di un candidato trasversale, italiano appoggiato dai tedeschi in un collegio misto vinto con più voti di tutti gli altri dieci candidati messi insieme, a dimostrare la potenzialità di questo complesso e meraviglioso territorio di essere davvero un ponte tra culture. In questi anni si sono approvate norme che hanno attenuato le tensioni tra i gruppi, si è rafforzata l’autonomia attraverso l’acquisizione di nuove competenze e il ripristino di alcune precedentemente erose, si sono stabilite nuove relazioni finanziarie con lo Stato, si sono ottenuti vantaggi economici enormi per il territorio (Raiffeisen, Rai, Autobrennero, concessioni idroelettriche…) e si è inaugurato un clima di rapporti più aperti con Trento e Roma. Altre cose si sono iniziate ma non si sono (ancora) concluse positivamente, in particolare la riforma costituzionale e quella dello statuto, che, a prescindere da come la si pensi sui contenuti, sono operazioni necessarie. L’economia è migliorata rispetto a cinque anni fa. Ma su altro si è tornati indietro. Il mondo è più cupo, e il nuovo clima di intolleranza che si respira in buona parte d’Europa e del mondo trova molte, troppe sponde in un contesto di delicatissimi equilibri come l’Alto Adige. Ho provato a spingere su alcuni punti qualificanti per la convivenza, dalla scuola alla toponomastica, e soprattutto a coltivare sempre un dialogo aperto con modalità partecipative, nonostante il clima prevalente vada in altra direzione.

Torno alla vita accademica a tempo pieno, agli impegni internazionali, alle sfide intellettuali. Al lusso di potersi occupare delle questioni strutturali e non congiunturali. Nonostante il mondo accademico non sia affatto migliore di quello politico (anzi…), è quello che ho scelto. Non sparisco e se qualcuno riterrà di chiedere il mio parere non mi sottrarrò. La politica si può vivere in tre modi, tutti rispettabili: come professione, come missione o come un periodo di servizio civile. Per me, meccanico più che pilota delle istituzioni, vale la terza opzione. Un proverbio buddista dice: “alla fine contano solo tre cose: quanto hai amato, come gentilmente hai vissuto, e con quanta grazia hai lasciato andare cose non destinate a te”.

Questione di vita o di morte

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(pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 7 luglio 2016)

Da un Parlamento che produce leggi a raffica ci si aspetterebbe che intervenisse anche sulle questioni più centrali e laceranti che riguardano la vita (e dunque anche il fine vita) delle persone, o almeno che ne dibattesse. Invece purtroppo, nonostante l’attivismo di non pochi parlamentari e associazioni, un impenetrabile muro di gomma si erge sui temi genericamente definiti “etici”, ma anche su questioni riguardanti i diritti fondamentali delle persone e più in generale i grandi orientamenti della società. Per alcuni sono temi “divisivi”, per altri sono tabù di cui è ipocritamente proibito parlare (magari perché “non lo vuole Dio”, del quale alcuni si ergono a interpreti autoproclamati), per altri ancora mancano le condizioni politiche: fatto sta che la discussione, il confronto di idee e la stessa informazione su questioni fondamentali sono drammaticamente assenti dal dibattito pubblico, sia nelle aule parlamentari sia nella società, e restano confinati all’interno di sparuti gruppi (spesso fortemente ideologicizzati) e in pochi circoli intellettuali. La politica però dovrebbe proprio servire a dare una dimensione pubblica ai grandi temi della società, tanto più a quelli che dividono, e se si riduce per debolezza a farsi orientare solo dalle scelte (presuntivamente) popolari (e spesso populiste) o ad astenersi da quasi tutto per non incorrere nell’insulto telematico sempre dietro l’angolo, viene meno al suo compito. È un fenomeno radicato da anni e ormai purtroppo difficilmente reversibile.

Benissimo ha fatto dunque Mauro Marcantoni a riproporre il tema del fine vita. Non si può certo dire che manchi la riflessione sul punto, né l’iniziativa politica (esistono dei disegni di legge, in particolare uno di iniziativa popolare, promosso dall’associazione Coscioni) e nemmeno un certo interesse da parte delle persone, se è vero che i sondaggi (l’ultimo dello scorso novembre relativo alle regioni di nord-est) confermano che il tema è ritenuto importante ed una disciplina dell’eutanasia è vista con favore da una larga maggioranza di cittadini. Questo per smontare l’argomento per cui di certi temi “è meglio non parlare”: il problema delle reazioni “di pancia” e ideologiche dipende molto spesso dalla domanda sbagliata. Come nella vita, a domanda stupida non può che seguire una risposta stupida, mentre è assai più probabile che una domanda intelligente provochi negli interlocutori elaborazioni mentali più sofisticate. Purtroppo capita assai spesso che venga posta prima la domanda stupida, e questa orienta mediaticamente il dibattito polarizzando le posizioni anziché entrare nel merito. Succede per i referenda, ma succede esattamente lo stesso nel parlamento.

Ecco perché sono benvenute tutte le iniziative che consentono di tematizzare argomenti importanti, anzi essenziali per la civiltà di un Paese. Perché se ne discuta in modo ragionato e informato, fuori dagli slogan e nella consapevolezza che – purtroppo – il Parlamento se ne occuperà realmente solo in presenza di un dibattito ampio e diffuso nella società, a partire quindi dai media. Vale per il fine vita, vale per la legalizzazione della cannabis, vale per il riconoscimento di Rom e Sinti, e per diversi altri temi la cui discussione pubblica è sostanzialmente inibita. Certo, il fatto che il Parlamento sia stato praticamente paralizzato per un mese solo per la legge da “minimo sindacale” sulle unioni civili dà ragione ai “realisti” per i quali su argomenti ben più delicati di quello non vi sono le condizioni politiche. Ma allora bisogna iniziare a crearle, altrimenti non vi saranno mai. Ed è dimostrato che quanto più un Paese resta indietro sui diritti, tanto più resta indietro anche sul piano sociale ed economico. Una discussione seria su questi punti, oltre a non essere procrastinabile in una società avanzata, potrebbe valere anche qualche punto di PIL.

 

La legge elettorale del Barone di Münchhausen

cropped-leselampe-weit.jpg(pubblicato su http://www.salto.bz/de/article/22012015/la-legge-elettorale-del-barone-di-muenchhausen il 22 gennaio 2015)

C’è un errore concettuale dietro alla legge elettorale – a questa come alle ultime che l’hanno preceduta. Per questo non può funzionare. Indipendentemente dai suoi contenuti.

Nei palazzi romani il tema del giorno – da molti giorni – è la legge elettorale. Questione noiosa e per addetti ai lavori? Dipende da come la si affronta. Purtroppo lo si fa generalmente male, sia nel dibattito politico sia nella sua riproposizione mediatica. Ed è l’approccio, più dei contenuti, a mostrare emblematicamente come il processo politico sia inceppato e non funzioni più.

È da Natale che il Senato è paralizzato per la legge elettorale. Il che sarebbe anche comprensibile data la delicatezza del tema, ma lo è assai meno se si considera che le decisioni non sono prese in Parlamento. Che diventa sempre più un Parlatoio.

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