(pubblicato sulla Rivista Il Mulino https://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:4633?fbclid=IwAR2XhzUPVynn06rdesv-N7NwA5_Ax8y1DGMdEfvnk2d6gRvohdRwNZwTWhE il 26 febbraio 2019)
È bastato un ulteriore, anche se non definitivo, passo in avanti verso la chiusura delle intese con Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna per la concessione a tali regioni di ulteriori competenze, per scatenare una nuova ondata di indignazione, paura, reazioni scomposte e provocatorie. Si è coniato uno slogan come quello della “secessione dei ricchi”, costituzionalmente non irreprensibile. Si sono annunciate iniziative teatrali e giuridicamente fantasiose, come quella del sindaco di Napoli che intende proporre un referendum (e ti pareva) per l’autonomia della città.
Ma cosa c’è dietro il sacro terrore dell’autonomia che anima così tanta parte della classe dirigente del Paese? Fino al punto da indurre molti difensori della supposta “Costituzione più bella del mondo” a protestare in modo veemente contro l’attuazione di una disposizione prevista, all’articolo 116 comma 3, proprio in questa Costituzione?
Dietro c’è qualcosa di molto semplice e altrettanto preoccupante: l’assoluta mancanza di una cultura dell’autonomia e di qualsiasi reale comprensione di ciò che l’autonomia significhi e comporti. Un problema che affligge non solo le burocrazie e la classe politica nazionale, ma anche quelle regionali – ed è semmai qui che sta il nodo potenzialmente problematico.
La stessa ricorrente e abusata espressione “autonomia differenziata” utilizzata in relazione a questo processo di devoluzione asimmetrica è un pleonasmo. Autonomia non può infatti che significare differenziazione, o almeno possibilità di differenziazione, dunque di approvare regole diverse da parte dei diversi territori. È evidente, fin dall’etimologia, che in presenza delle medesime regole non possa parlarsi di autonomia.
In Italia il terrore della disomogeneità ha ispirato la cultura giuridica e politica fin dalla legge sull’unificazione amministrativa del 1865. Da allora le enormi diversità del Paese non solo non sono state adeguatamente sfruttate come forme di ricchezza, ma neppure sono state ridotte. Anzi. Quanta uguaglianza è stata ottenuta con l’ossessione delle regole uguali per tutti? I “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” sono davvero “garantiti su tutto il territorio nazionale”, come previsto dalla Costituzione (art. 117 c. 2)? Tali livelli, peraltro stabiliti solo in ambito sanitario, hanno fatto sì che i servizi sanitari funzionino allo stesso modo in tutta Italia? E le scuole? E i servizi pubblici?